Il mago di Emanuele Trevi è suo padre Mario, famoso psicanalista. E la casa in questione, dunque, è la casa paterna: quella che allo scrittore è rimasta in eredità e che ospitava anche lo studio dove Mario riceveva i pazienti, al di qua di una poderosa scrivania di legno. Emanuele vi si trasferisce, quasi fosse alla ricerca dei segreti di Mario, tanto bonario e tranquillo quanto taciturno, enigmatico e pensieroso. Anche la madre, del resto, glielo diceva: “Lo sai come è fatto”. Giusto per alludere ad una personalità irriducibile. Ad ogni modo, nella casa, i talismani per sintonizzarsi a dovere con lo spirito del mago non mancano: una coperta bucata, quaderni e appunti, l’I King, alcune pietre levigate e, su tutti, una copia di Simboli della trasformazione di Jung, debitamente studiata e spietatamente annotata. L’Autore comincia a leggerla, immergendosi – assieme al padre e allo psicanalista svizzero – nell’osservazione dei prodromi schizofrenici di Miss Miller. Nel frattempo accadono molte cose, piccole eppure significative. Mentre una misteriosa Visitatrice notturna si aggira per le stanze della casa, lasciando segni visibili della sua presenza, la vita di Emanuele viene invasa dalle scorribande della colf peruviana, che gli presenta l’avvolgente Paradisa. La donna, alla fine della storia, lascerà Roma, e così anche la casa. Ma la relazione, per quanto breve e improbabile, consente allo scrittore – come se fosse guidato dall’ispirazione di una figura mitologica – di abbandonarsi e, al contempo, di ripercorrere la giovinezza di Mario, la fuga dalle Langhe, le avventure partigiane, la malattia creativa, l’insegnamento, l’iniziazione alla psicanalisi da parte di Ernst Bernhard. Le abilità narrative di Trevi sono sperimentate e note, specie per la capacità evocativa dello stile. Luoghi e oggetti si animano, stimolano suggestioni potenti e si fanno medium di ricordi, esperienze e cognizioni. Al romanziere riesce, per questa via, un’operazione molto difficile: farsi egli stesso cavia per una traduzione concreta del metodo psicanalitico e per la dimostrazione di quali siano le strade lungo le quali l’io si forma, si orienta e si ritrova.

Recensioni (di M. Belpoliti; di A. De Simone; di D. Matronola; di M. Oliva; di G. Silvano; di G. Simonetti)

Tre interviste a Emanuele Trevi: 1, 2 e 3

Antonio Gnoli intervista Mario Trevi

Luigi Zoja su Carl Gustav Jung

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Ci troviamo in una piccola città suditirolese. Erwin, il padre di Johannes, è morto a causa di un tumore. Ma il fratello di Johannes, Georg, che è un politico e si è occupato sempre assai poco del padre, lo chiama spaventato al telefono, dicendogli di aver visto il defunto fuori dalla porta di casa. Forse Georg è sotto choc? O c’è qualcosa di strano? Anche la madre sembra improvvisamente impazzita. Sostiene che qualcuno ha rubato la borsa da viaggio del marito. Probabilmente anche lei è sconvolta dal decesso di Erwin ed è possibile che dimostri qualche segno di demenza. Comunque sia, Johannes – che fa l’insegnante e vive con la figlia Alma in una città oltreconfine – e Angelina – la moglie di Georg – non sanno capacitarsi. Poi Georg si accorge che sono scomparsi alcuni documenti del padre, legati al suo passato di giovanissima recluta della Wehrmacht, in servizio nella Berlino bombardata e assediata dagli Alleati. Johannes apprende dalla madre che è stata lei a distruggerli, perché contenevano delle lettere: si trattava del carteggio con una donna. Così, approfittando di un congresso sui risultati scolastici organizzato nella capitale tedesca, si reca a Berlino. Qui comincia un’esperienza molto particolare, non priva di colpi di scena, interferenze temporali e fantasmatiche, e situazioni sorprendenti. Non solo Johannes non resiste e si mette alla ricerca, trovandola, della donna misteriosa, ora molto anziana ma ancora viva. La sua è anche un’immersione psico-sensoriale, nella quale rivede il padre e, ricostruendone le tracce, e vivendone una nuova e inaspettata morte, ne reinterpreta la traiettoria e l’avventura, assecondando il vero se stesso. E lasciandosi andare. Di questo romanzo non si può dire tutto, si rischierebbe di restituirne un’immagine semplicistica. Come se si dicesse, ad esempio, che questa è una storia in cui l’amore vince la morte. Nella prosa pacata e lineare del suo Autore – che qua e là sa farsi anche comica, con l’effetto di creare un po’ di complicità con il lettore e di tradurre bene la sincera stupefazione del protagonista – si nasconde l’inafferrabile complicazione di un viaggio nella memoria e nella naturalezza. In Stanze berlinesi Sepp Mall ci porta fuori dagli schematismi delle vite indifferenti e stereotipate, insegnandoci che per farlo dobbiamo conoscerci meglio, andare oltre confine e ascoltare davvero la voce che portiamo dentro. 

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Virginia è morta, si è suicidata nella sua casa di Pisa. Gaia, Marcello, Leo e Cecilia – che con Virginia avevano frequentato la Normale – tornano in città per essere sentiti dalla polizia. È Gaia a raccontare: delle domande che le vengono fatte, del suo lavoro in una televisione svizzera, dei ricordi della vita studentesca, del fallimento del suo matrimonio, dell’amore con Marcello. E dei sospetti che si addensano proprio su di lei. Perché gli inquirenti sono convinti che Virginia sia stata indotta a uccidersi e che Gaia sappia molte cose. In effetti ci racconta che non aveva mai sopportato la sua ex compagna di collegio, anche se, in verità, il suo racconto ha un solo e vero protagonista: il collegio stesso, le sue stanze, il suo giardino con la fontana dai grandi pesci, i riti goliardici imposti dagli studenti più anziani, i sogni e le amicizie; e la dura vicenda di Matteo, quello che non c’è l’ha fatta. La storia di Gaia, così, in origine bella e spensierata matricola, scorre davanti ai nostri occhi come un’educazione sentimentale alla rovescia, nella quale la scomparsa di Virginia diventa uno dei tanti e inevitabili accidenti di un’esperienza che sa di grottesco (l’epilogo la dice lunga…) e che non tutti sono in grado di  comprendere e metabolizzare fino in fondo. La ragione è facilmente intuibile: uscire dall’acquario non è semplice, soprattutto da parte di chi ci ha puntato tutto.

A pag. 12 compare la “ferocia”, che è la parola-chiave, non solo perché è termine di successo (c’è un noto romanzo che se ne è fatto emblema, con un grande riscontro di critica…), ma anche perché, quando si palesa, lo fa accanto all’immagine dell’acquario, fulcro del titolo, centro reale della scena e metafora crudele, quasi concentrazionaria, di un peculiare luogo dell’anima e di ciò a cui esso, con fredda ostinazione, prepara i suoi “accoliti”. Certo, si può dire che l’Autrice non fa altro che ricorrere ad un tema di grande e consolidato successo; cose da L’attimo fuggente, tanto per dirne una, o da giovane Törless o, ancora, da studente Gerber. Nulla di tanto nuovo, apparentemente. Il fatto è, tuttavia, che Ilaria Gaspari scrive molto bene, in primo luogo, e che, in secondo luogo, il copione non è veramente coincidente con quello più scontato. In questo romanzo, infatti, gli eroi non ci sono, e non lo sono tanto più gli studenti: né quelli che ci sembrano subito i più cattivi, né quelli che nel libro agiscono come figure potenzialmente positive o come vittime. Ebbene sì, l’acquario ha una sua etica, forse brutalmente perversa: la critica è evidente, ma tale è solo la superficie. L’acquario è anche la cornice delle sicurezze che Gaia e i suoi compagni hanno ritenuto esclusive e che ora non riescono più a relativizzare. Sicché il mostro, quello vero, quello capace di portarli tutti ad una sorta di inesorabile dissoluzione, senza colpe, è già dentro di loro e fatica a lasciarli. È per questo che un luogo di severa e densa istruzione non può che stimolare all’estremo ogni paura, assolutizzando la competizione per il sapere come lotta per la vita. Dunque, se si vuole crescere, e sopravvivere, occorre vedersi anche al di fuori. Virginia non ci è riuscita; neppure Gaia lo ha fatto, e non lo ha ancora capito. E qui – probabilmente – sta tutta la profondità di questo libro.

Recensioni (di Luisa Perlo, di Giulia Ciarapica, di Guido Vitiello, di Giovanni Turi)

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Esistono libri che non si possono raccontare, neanche parzialmente. Non tanto per le ovvie difficoltà che qualsiasi opinione avrebbe riguardo a storie di cui non si possono rivelare il finale o i colpi di scena che le animano. Talvolta è già la struttura che non si può comunicare, e altre volte ancora è complesso comprendere se il traduttore sia stato davvero in grado di rendere linguaggio, espressioni, ambiguità e doppi sensi. Palahniuk si diverte a fabbricare congegni narrativi di questo tipo, che tanto stordiscono e interrogano il lettore, quanto lo rendono semplicemente afasico dopo l’ultima pagina. Se poi ci si imbatte in questo Invisible Monsters – che, per essere chiari, è venuto prima, nella stesura, della fortunata apparizione di Fight Club (1996) e dei tanti successivi romanzi di successo – si capiscono sia il motivo dei tanti rifiuti che gli editori avevano opposto al giovane e sconosciuto scrittore, sia la ragione del radicamento di un vero mito letterario in larga parte del pubblico. Perché non si tratta, semplicemente, di un cocktail per stomaci forti; si tratta di un torcibudella emotivo dal sapore quasi psichedelico, come se Palahniuk si fosse divertito – cosciente o incosciente, che cosa importa? È il risultato quello che conta… – a miscelare Fëodor Dostoevskij, Philip Dick, Thomas Pynchon e Johnathan Swift, con qualche anticipazione, tra il drammatico e il grottesco, del contemporaneo J.T. Leroy. Sembra troppo, ma per questo Autore l’eccesso è una virtù, cifra ineludibile di ogni sub-cultura pop contemporanea.

La protagonista è Shannon McFarland, una modella brutalmente sfigurata da un colpo di fucile. L’avvio del romanzo, però, ci getta subito nel bel mezzo di un altro momento tragico, sulla scena di un clamoroso delitto che costituirà il finale della storia e che, quindi, necessita una spiegazione. Così la voce di Shannon, per farci capire, ci guida avanti e indietro nel tempo, miscelando spezzoni di vita presente e di esperienza passata: nella clinica in cui è stata ricoverata dopo l’incidente; nel suo lavoro di top model di seconda categoria; nelle periodiche visite a casa dei genitori ossessionati dalla scomparsa dell’altro figlio omosessuale; nelle uscite con la ricca collega, e amica, Evie, e con il fidanzato poliziotto, Manus; nel lungo girovagare tra gli Stati Uniti con la Principessa Brandi Alexander, transgender conosciuta in clinica, e con il loro eccentrico e mutante accompagnatore, tutti a caccia di medicinali e droghe di vario genere, da ingerire o vendere nei vicoli della grandi città. La narrazione si trasforma gradualmente in confidenza e confessione, e la verità si palesa, sorprendente, passo dopo passo, in un palcoscenico in cui gli attori – in primis i compagni di viaggio di Shannon – non sono ciò che dicono di essere. In superficie, li vediamo tesi alla disperata e dolorosa ricerca di una realizzazione fisica e psicologica artificiale e mai compiutamente disponibile; nel sottosuolo, li intuiamo anche lucidi interpreti di un destino paradossalmente condiviso e assecondato fino all’estremo, impossibile, e forse comune e programmato, traguardo. La lente di Palahniuk ci trasporta in un caleidoscopio di perversioni: nella famiglia e nel rapporto di coppia; nella moralità plastica della fashion society e delle addictions spersonalizzanti che finisce per ingenerare; nel disastro antropologico di un’umanità semplicemente nuda, e forse riscattabile, anche oltre l’indicibile, grazie a un gesto illusorio di amore altrettanto nudo e spietato. In verità, ciò che alla fine impressiona di più è la rappresentazione severa di un universo di relazioni dominate da un formidabile e invincibile egotismo.

Recensioni (di D. Marinacci, D. Montella, M. Lomunno, Z. Masud, G. Santini, L. Appia, S. Ghega, C. Bucolo, J. Greenya)

Il fan site dedicato a Palahniuk

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Scopro Jim Harrison in un documentario mandato in onda su Rai5: è la versione italiana di un programma francese, e François Busnel intervista questo splendido ceffo leggendario, da scrittore di foresta, lago e prateria. Prendo il primo dei titoli disponibili in libreria e mi immergo in una lettura che non sopporta interruzioni. Nulla di avvincente, in verità; è soltanto, e tremendamente, profondo. Forse è un giudizio banale, ma ormai abbiamo occhi e orecchie troppo sofisticati, e ciò che Harrison vuole fare è, come suggerisce anche il volume, riportarci sulla terra, in un punto cui tutti, prima o poi, dobbiamo passare.

È diviso in quattro parti, una per ciascuna delle voci che prendono la parola esprimendosi in prima persona. Al centro delle riflessioni c’è Donald, che inaugura la narrazione mettendoci subito di fronte ad una situazione difficile: ha quarantacinque anni e il morbo di Gehrig, sta per morire, e deciderà di farlo. La sofferenza è nuda, ma lo sono anche l’anima e la memoria, quella personale e quella della sua gente, perché Donald è mezzo finlandese e mezzo indiano, di etnia chippewa. Il secondo a prendere la parola è K, il nipote, atletico, selvaggio, ma anche sensibile e intelligente, vicinissimo allo zio e ancora un po’ allo sbaraglio; di fronte alla morte, di fronte alla prematura scomparsa del padre, di fonte all’amore che prova per la cugina Clare, la figlia di Donald. La terza voce appartiene a David, il fratello di Cynthia, la moglie di Donald, e il figlio del ricco signor Burkett, per il quale Donald e il padre Clarence facevano alcuni lavori di casa. È una voce naïf, piena di interrogativi, cronicamente depressa, alla costante ricerca di un’espiazione artificiosa, e distrutta dalla terribile figura del padre, che a sua volta ha distrutto la vita di Vera, la donna messicana di cui è innamorato. Chiude il libro Cynthia, in un crescendo di consapevolezze sul suo rapporto con Clare, sul rapporto tra Clare e la memoria di Donald, sul suo essere madre e donna, sull’assoluta e disarmante dimensione dell’esistenza.

Non è un romanzo facile. Oso confessare che la prima parola che mi è venuta in mente tra una riga e l’altra è panpsichismo, che è nozione, però, troppo europea per fare al caso nostro. Tutto fuorché facile, quindi. La seconda parola, invece, è stata Nordamerica, perché è vero che pensando a Harrison il pensiero va a Hemingway e a Faulkner (ma la critica sugli ideali fondativi della radice USA e sui suoi sogni così erroneamente concreti e così volatili fa quasi pensare anche a Caldwell e a Dreiser). Il fatto è che questo scrittore, a cui piace parlarci di orsi, di boschi, di vento, di spiriti, di tende e di nativi americani – a proposito: indimenticabile la figura di Flower, zia di Donald –, è estremamente e naturalmente colto, perché attinge alla ricchezza di un ordine primordiale che è oltre i pericoli della corruzione morale e che sembra contenere ogni cosa e ogni esperienza. Non abbiamo soltanto bisogno di natura, ma anche di aedi e di racconti che ce la rendano ancora una volta il comune e fatale paradiso perduto. Harrison fa al caso nostro. Chapeau!

Recensioni (di Christian Verzeletti, Sergio Pent, Will Blythe)

A pranzo con Jim Harrison

Due lunghe interviste: su The Paris Review e Outsideonline.com

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Ho scelto di leggere questo recentissimo libro di Moresco per tre ragioni: 1) L’incipit: “Sono venuto qui per sparire, in questo borgo abbandonato e deserto di cui sono l’unico abitante”. È una tentazione che talvolta si fa strada anche nel mio animo; e anche il gruppo di case diroccate descritto nelle righe immediatamente successive corrisponde ad una suggestiva combinazione di due diversi luoghi cui penso spesso proprio come improbabili, e per questo perfette, sedi di rifugio. Perché non provare ad immergervisi sin d’ora? 2) La prosa di quest’Autore: ero rimasto ammaliato, ma anche travolto, da Canti del caos. Mi sono sempre chiesto come poter rivivere la stessa intensità, senza però correre il rischio di riuscirne completamente soverchiato. Ecco la soluzione: la dimensione molto più contenuta di quest’ultimo pezzo invita ad un’esperienza potenzialmente assai più proporzionata e non meno profonda. Perché, quindi, non dedicargli un pomeriggio? 3) Il titolo: nella sua semplicità ha evocato subito immagini familiari e riflessioni avvolgenti, ma anche un enigma da risolvere, un punto lontano da mettere a fuoco, un tema ricorrente e dominante che se ne sta sempre acceso e che richiama attenzione, silenzio e rispetto, ma anche un sorriso curioso; come quando ci si ritrova, da bambini e forse anche oggi, di fronte alle candele che stanno in chiesa di fronte ad un altare. Perché, allora, non capire come va a finire?

Pur sorretto da queste motivazioni – che per ogni comunissimo lettore appartengono al novero di quelle incrollabili – sono rimasto un po’ deluso. Il problema non è la linearità estrema della storia, che è tale soltanto per chi si accontenti di un’impressione totalmente superficiale: la storia, in sostanza, non è solo quella di un uomo che, nel buio di un luogo immerso nel bosco, vede una piccola luce all’orizzonte, cerca di capire quale ne sia fonte, scopre che si tratta di un misterioso bambino e si trova quasi affascinato dal contatto con il mistero della morte che gli si palesa allorché viene a sapere che quel bambino altro non è che un fantasma. La storia è tutta nel palco in cui si rappresenta, nell’abbraccio di una natura aggrovigliata e piena di vita e di domande che restano quasi sempre senza risposte; di una natura che, alla Lucrezio, solo l’immaginazione può sondare nel modo più corretto, così come è vero che anche l’esperienza umana vi è pienamente immersa e si nutre di nessi e di abissi razionalmente non spiegabili. L’ambiguità e il carattere allusivo, ma irrisolto, del finale proprio questo vogliono mettere in scena. Tutto ciò – l’effetto complessivo, intendo – è pienamente riuscito e degno, quindi, della più grande stima.

Eppure devo registrare che La lucina ha un grosso punto debole. Nonostante lo stile sia perfettamente adeguato alla materia e al senso che si vuole comunicare, ciò rischia di continuare ad ingenerare l’idea che Moresco sia solo “un grande maestro della scrittura”, come vuole ribadire anche la quarta di copertina (che peraltro si macchia anche del “crimine” di richiamare troppo facilmente Leopardi e il Piccolo principe: è vero che la tradizione letteraria, in Moresco, è il fondamento primo; ma l’uso pubblicitario di alcuni riferimenti, in questo caso, è troppo astuto ed ammiccante). Come si è detto, invece, c’è dell’altro in questo libro, e anche se al cospetto di una vicenda letteraria che non è più agli esordi e che si è ormai composta, anzi, di migliaia di pagine occorre riconoscere che l’Autore nutre ancora troppa fiducia nel potere seduttivo della parola. Il suo tema è molto più secco e cerebrale; non è il soggetto di un dipinto rinascimentale, è il frutto di un sofferto lavoro di incisione, con il quale il dialogo è sempre aperto, sempre immutato, sempre classico. Moresco è un autore antico: quando il verso seguirà il pensiero, potremo acclamarlo di tutto cuore.

Nota di lettura su La lucina (di Silvana Farina)

Una recensione (di Laurent Lombard)

L’Autore presenta la sua opera in libreria e a “Che tempo che fa”

Un’intervista radiofonica (di Rossana Maspero)

Antonio Moresco in dialogo con Walter Siti: parte 1, parte 2, parte 3 e parte 4

Un approfondimento su Moresco

Attualità di Moresco (di Luca Cristiano)

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L’inizio de La stella della redenzione, di Franz Rosenzweig, mi è sempre rimasto particolarmente impresso: “Dalla morte, dal timore della morte prende inizio e si eleva ogni conoscenza circa il Tutto”. Nel contesto di una potentissima, quanto oscura, proposta filosofica, questa affermazione rischia di risultarci soltanto astratta, troppo assoluta, inafferrabile. D’altra parte, in quell’incipit, non c’è traccia delle circostanze in cui quel libro è stato concepito: Rosenzweig lo ha compilato, pezzo per pezzo, sul retro di cartoline che spediva alla madre, mentre si trovava in trincea durante il primo conflitto mondiale. Era immerso, quindi, in una condizione nella quale quel pensiero non poteva abbandonarlo; sapendo tutto questo, cominciamo a capirlo un po’ meglio.

Anche Franco Arminio spedisce cartoline; o, meglio, le lascia spedire, con l’immaginazione, da persone senza nome, che sono già morte, e che ci consegnano, così, qualche frase sul loro decesso, su quello che sono stati costretti ad abbandonare, sul modo con cui le persone hanno reagito o, semplicemente, su come sono andate le cose. Ed anche Franco Arminio, nella Nota che segue alle sue 128 cartoline, rivela che “puoi scrivere intorno a questa cosa che forse regge tutto, intorno a questo niente che sorregge e corrode ogni cosa” soltanto “in quell’umore che ti viene dalla morte appena trascorsa”. Nel suo caso, il pensiero della morte viene in coincidenza con alcuni attacchi di panico. Per molti, quello stesso pensiero emerge allorché muore una persona cara.

Per un po’, dopo l’acquisto, ho considerato questo piccolo libro come qualcosa di intoccabile: avevo paura del suo contenuto, o forse dell’idea che ci si può fare, di solito, di un testo che rimanda chiaramente ad un qualcosa di cui mai si vorrebbe parlare. Invece la lettura di Cartoline dai morti si è rivelata un’esperienza tutt’altro che univoca o convenzionale. Perché il paesologo – e poeta – Franco Arminio, da par suo, non si è spinto a proporre interpretazioni universali, né ha voluto stimolare sentimenti di contrizione o di riflessione profonda. Si è soltanto proposto di fotografare esperienze possibili, spesso tragiche e strazianti, ma talvolta anche comiche e apparentemente surreali. Sicché si viene travolti da cartoline che sanno, allo stesso tempo, di casuale e di inevitabile, di imponderabile e di atteso, di realistico e di onirico, di sperato e di ignoto.

In questo la morte si scopre simile alla vita, come se ne fosse un vero completamento, così eccezionale in alcuni casi, così comune in altri, irripetibile e singolare sempre. Pur nella consapevolezza, quindi, che al segreto della morte ci si può avvicinare soltanto da vicino, Arminio ci consegna la chiave di uno scrigno che, una volta aperto, non può che essere pieno, paradossalmente, di episodi normali e di sensazioni ordinarie. Probabilmente è proprio vero: l’unico modo per esorcizzare la paura è riconoscere l’estrema naturalezza del suo oggetto.

 

Cinque cartoline scelte:

Stavo togliendo di mezzo le maglie dell’inverno. Mi ero stancato di piegarle una a una e di trovare un posto dove nasconderle. Nella mia casa c’erano troppe cose. Troppe maglie, troppe scarpe, troppi cappotti, troppe sciarpe. Sono caduto a terra stringendomi a un maglione. Era un maglione verde, uno che non mi ero messo mai.

Io passeggiavo, mangiavo poco, cercavo di non arrabbiarmi con nessuno. Non è servito a niente.

Tutto per colpa di una vacca che di notte stava in mezzo all’autostrada.

Nessuno mi aveva spiegato niente. Ho dovuto fare tutto da solo: rimanere fermo e muto, raffreddarmi, iniziare a decompormi.

Non c’è neanche il niente, almeno così mi pare.

 

Al cimitero con l’Autore

Il blog del paesologo Franco Arminio

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Non è il libro più recente di Scott Turow: risale al 2003. E non appartiene al genere che lo ha reso famoso, come Autore, ad esempio, di Presunto innocente (1987), thriller capostipite di una lunga e fortunata serie, oltre che fonte d’ispirazione per il noto ed omonimo film di Alan Pakula, con Harrison Ford nei panni del protagonista. Si tratta, questa volta, di un saggio “d’eccezione”, che di certo si potrebbe definire, senza timore di essere smentiti, come un pezzo di high class journalism. Perché non è affatto facile discutere della pena di morte in modo così chiaro, completo e sincero.

Lo stimolo alla lettura è stata la preparazione per assistere ad un recente seminario, organizzato presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento, in occasione della presentazione di un documentario (Still Killing: Academics for the abolition of Capital Punishment, 2011). Non posso che ringraziare il collega che mi ha indicato gli estremi di questa lettura e che, così facendo, mi ha consentito di presenziare, preparato e sensibilizzato, a quel dibattito. Ma il libro di Turow è qualcosa di più, e anche di diverso. Il suo nucleo essenziale è il resoconto delle impressioni e delle riflessioni che l’Autore ha maturato soprattutto come membro della Commissione sulla pena capitale nominata dal Governatore dello Stato dell’Illinois, George Ryan, che il 31 gennaio 2000 proclamò una moratoria su tutte le esecuzioni future. Non vi sono estranee, tuttavia, esperienze professionali personali, nelle quali il romanziere si è trovato ad affrontare, da legale, alcuni delicati processi.

L’elemento qualificante del testo è l’equilibrata pacatezza con cui vengono affrontati alcuni dei nodi essenziali della discussione sulla pena di morte, in primo luogo negli Stati Uniti. Si affrontano le perplessità basate sull’elevata statistica relativa agli errori (cioè ai casi di condannati a morte poi scagionati) o sui modi con cui la pubblica accusa può incappare, più o meno consapevolmente, in materiali strumentalizzazioni delle cause che possono sfociare in una condanna capitale (troppo spesso, cioè, gli inquirenti difendono anche i propri errori, anche quando sono palesi). Si evidenzia l’ambiguità strutturale dell’enfasi sulle vittime dei colpevoli e sul loro ruolo processuale (“In una democrazia, nessuna minoranza, neanche quelle che conoscono tragedie strazianti, dovrebbe avere il potere di parlare a nome di tutti”: p. 78); ma si sottolinea anche la scarsa tenuta degli argomenti con i quali usualmente si giustifica la pena di morte in base al presunto valore deterrente della sua previsione (“se la pena capitale è un deterrente, la cosa non è visibile a occhio nudo”: p. 83); e si considera quanto, in questo discorso, possono avere un peso i motivi di ordine squisitamente morale (“Per il male supremo non deve esistere una pena suprema? Il problema non è vendicarsi o pareggiare i conti, ma l’ordine morale”: p. 87).

Ciò che spinge Turow, però, a votare contro la pena di morte non è un misurato e risolutivo bilanciamento di posizioni pro e di posizioni contra. È la violenza “estrema”, tanto più se autorizzata dalla legge, a sembrargli del tutto sproporzionata e inutile rispetto ai bisogni, “troppo umani” potremmo dire, che essa dovrebbe asseritamente soddisfare: “Il procedimento legale non sanerà mai del tutto le nostre ferite. (…) Rispetto profondamente la legge come istituzione, ma il suo funzionamento non è scevro da lacune e sbagli. Non è in grado di risalire alle verità né di amministrare la giustizia con l’affidabilità che è costretta a ostentare. Le sue affilate regole non arrivano mai a penetrare fino in fondo le tenebre dell’ambiguità morale, e non sanno comprendere né dare risposte alla complessità delle motivazioni e delle intenzioni umane. E la pena, da sola, non trasforma il mondo che ci circonda in quello in cui vorremmo vivere” (p. 142).

Anche la letteratura, ancora una volta, ci spiega perché le scelte legislative e il potere pubblico devono sempre avere dei limiti.

Una recensione da RaiLibro

Il sito ufficiale dell’Autore

Un’intervista a Turow (fatta da Serena Dandini)

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