Esistono libri che non si possono raccontare, neanche parzialmente. Non tanto per le ovvie difficoltà che qualsiasi opinione avrebbe riguardo a storie di cui non si possono rivelare il finale o i colpi di scena che le animano. Talvolta è già la struttura che non si può comunicare, e altre volte ancora è complesso comprendere se il traduttore sia stato davvero in grado di rendere linguaggio, espressioni, ambiguità e doppi sensi. Palahniuk si diverte a fabbricare congegni narrativi di questo tipo, che tanto stordiscono e interrogano il lettore, quanto lo rendono semplicemente afasico dopo l’ultima pagina. Se poi ci si imbatte in questo Invisible Monsters – che, per essere chiari, è venuto prima, nella stesura, della fortunata apparizione di Fight Club (1996) e dei tanti successivi romanzi di successo – si capiscono sia il motivo dei tanti rifiuti che gli editori avevano opposto al giovane e sconosciuto scrittore, sia la ragione del radicamento di un vero mito letterario in larga parte del pubblico. Perché non si tratta, semplicemente, di un cocktail per stomaci forti; si tratta di un torcibudella emotivo dal sapore quasi psichedelico, come se Palahniuk si fosse divertito – cosciente o incosciente, che cosa importa? È il risultato quello che conta… – a miscelare Fëodor Dostoevskij, Philip Dick, Thomas Pynchon e Johnathan Swift, con qualche anticipazione, tra il drammatico e il grottesco, del contemporaneo J.T. Leroy. Sembra troppo, ma per questo Autore l’eccesso è una virtù, cifra ineludibile di ogni sub-cultura pop contemporanea.
La protagonista è Shannon McFarland, una modella brutalmente sfigurata da un colpo di fucile. L’avvio del romanzo, però, ci getta subito nel bel mezzo di un altro momento tragico, sulla scena di un clamoroso delitto che costituirà il finale della storia e che, quindi, necessita una spiegazione. Così la voce di Shannon, per farci capire, ci guida avanti e indietro nel tempo, miscelando spezzoni di vita presente e di esperienza passata: nella clinica in cui è stata ricoverata dopo l’incidente; nel suo lavoro di top model di seconda categoria; nelle periodiche visite a casa dei genitori ossessionati dalla scomparsa dell’altro figlio omosessuale; nelle uscite con la ricca collega, e amica, Evie, e con il fidanzato poliziotto, Manus; nel lungo girovagare tra gli Stati Uniti con la Principessa Brandi Alexander, transgender conosciuta in clinica, e con il loro eccentrico e mutante accompagnatore, tutti a caccia di medicinali e droghe di vario genere, da ingerire o vendere nei vicoli della grandi città. La narrazione si trasforma gradualmente in confidenza e confessione, e la verità si palesa, sorprendente, passo dopo passo, in un palcoscenico in cui gli attori – in primis i compagni di viaggio di Shannon – non sono ciò che dicono di essere. In superficie, li vediamo tesi alla disperata e dolorosa ricerca di una realizzazione fisica e psicologica artificiale e mai compiutamente disponibile; nel sottosuolo, li intuiamo anche lucidi interpreti di un destino paradossalmente condiviso e assecondato fino all’estremo, impossibile, e forse comune e programmato, traguardo. La lente di Palahniuk ci trasporta in un caleidoscopio di perversioni: nella famiglia e nel rapporto di coppia; nella moralità plastica della fashion society e delle addictions spersonalizzanti che finisce per ingenerare; nel disastro antropologico di un’umanità semplicemente nuda, e forse riscattabile, anche oltre l’indicibile, grazie a un gesto illusorio di amore altrettanto nudo e spietato. In verità, ciò che alla fine impressiona di più è la rappresentazione severa di un universo di relazioni dominate da un formidabile e invincibile egotismo.
Recensioni (di D. Marinacci, D. Montella, M. Lomunno, Z. Masud, G. Santini, L. Appia, S. Ghega, C. Bucolo, J. Greenya)
Il fan site dedicato a Palahniuk
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