Virginia è morta, si è suicidata nella sua casa di Pisa. Gaia, Marcello, Leo e Cecilia – che con Virginia avevano frequentato la Normale – tornano in città per essere sentiti dalla polizia. È Gaia a raccontare: delle domande che le vengono fatte, del suo lavoro in una televisione svizzera, dei ricordi della vita studentesca, del fallimento del suo matrimonio, dell’amore con Marcello. E dei sospetti che si addensano proprio su di lei. Perché gli inquirenti sono convinti che Virginia sia stata indotta a uccidersi e che Gaia sappia molte cose. In effetti ci racconta che non aveva mai sopportato la sua ex compagna di collegio, anche se, in verità, il suo racconto ha un solo e vero protagonista: il collegio stesso, le sue stanze, il suo giardino con la fontana dai grandi pesci, i riti goliardici imposti dagli studenti più anziani, i sogni e le amicizie; e la dura vicenda di Matteo, quello che non c’è l’ha fatta. La storia di Gaia, così, in origine bella e spensierata matricola, scorre davanti ai nostri occhi come un’educazione sentimentale alla rovescia, nella quale la scomparsa di Virginia diventa uno dei tanti e inevitabili accidenti di un’esperienza che sa di grottesco (l’epilogo la dice lunga…) e che non tutti sono in grado di comprendere e metabolizzare fino in fondo. La ragione è facilmente intuibile: uscire dall’acquario non è semplice, soprattutto da parte di chi ci ha puntato tutto.
A pag. 12 compare la “ferocia”, che è la parola-chiave, non solo perché è termine di successo (c’è un noto romanzo che se ne è fatto emblema, con un grande riscontro di critica…), ma anche perché, quando si palesa, lo fa accanto all’immagine dell’acquario, fulcro del titolo, centro reale della scena e metafora crudele, quasi concentrazionaria, di un peculiare luogo dell’anima e di ciò a cui esso, con fredda ostinazione, prepara i suoi “accoliti”. Certo, si può dire che l’Autrice non fa altro che ricorrere ad un tema di grande e consolidato successo; cose da L’attimo fuggente, tanto per dirne una, o da giovane Törless o, ancora, da studente Gerber. Nulla di tanto nuovo, apparentemente. Il fatto è, tuttavia, che Ilaria Gaspari scrive molto bene, in primo luogo, e che, in secondo luogo, il copione non è veramente coincidente con quello più scontato. In questo romanzo, infatti, gli eroi non ci sono, e non lo sono tanto più gli studenti: né quelli che ci sembrano subito i più cattivi, né quelli che nel libro agiscono come figure potenzialmente positive o come vittime. Ebbene sì, l’acquario ha una sua etica, forse brutalmente perversa: la critica è evidente, ma tale è solo la superficie. L’acquario è anche la cornice delle sicurezze che Gaia e i suoi compagni hanno ritenuto esclusive e che ora non riescono più a relativizzare. Sicché il mostro, quello vero, quello capace di portarli tutti ad una sorta di inesorabile dissoluzione, senza colpe, è già dentro di loro e fatica a lasciarli. È per questo che un luogo di severa e densa istruzione non può che stimolare all’estremo ogni paura, assolutizzando la competizione per il sapere come lotta per la vita. Dunque, se si vuole crescere, e sopravvivere, occorre vedersi anche al di fuori. Virginia non ci è riuscita; neppure Gaia lo ha fatto, e non lo ha ancora capito. E qui – probabilmente – sta tutta la profondità di questo libro.
Recensioni (di Luisa Perlo, di Giulia Ciarapica, di Guido Vitiello, di Giovanni Turi)
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