Quando un Pardini si affaccia in libreria, la lettura è d’obbligo. Perché ci si trova di fronte a un autentico, spontaneo narratore (per altre precedenti letture v. qui, qui e qui). Anche Il valico dei briganti non fa eccezione a questo standard. È la storia di Vlademaro Taddei, un fuorilegge che cresce selvaggio e si forma nei boschi e nei pascoli attorno a Bagni di Lucca e diviene bandito a tutti gli effetti in America, sulla costa del Pacifico, dove emigra per sfuggire alle inevitabili conseguenze di un delitto. Lì si arruola – assieme a Jodo Cartamigli, un conterraneo che pare avere pulsioni decisamente opposte alle sue – in una squadra di guardie armate. Ma le tradisce ben presto, per schierarsi volontariamente con un gruppo di spietati malviventi. Viene iniziato alla più dura vita da criminale ed è catturato da una tribù di nativi, ma superata la durezza di questo apprendistato riesce ad accumulare un ottimo bottino e rientra così in patria. Tra i suoi monti cerca di vivere in modo riservato e decide di fare famiglia, assieme ad Angiolina, dalla quale ha due figli. Eppure l’istinto predatorio non lo abbandona e lo spinge a diventare il leader di una banda di briganti, impegnati in furti e rapine di ogni genere. Riesce a farla franca a lungo. Tuttavia, quando i suoi vengono catturati, processati e condannarti alla ghigliottina, capisce che deve darsi alla macchia. Comincia in questo modo una vera caccia, una sfida di cui sarà co-protagonista Jodo Cartamigli, che da tempo lo stava inseguendo per catturarlo e ucciderlo. La lotta proseguirà senza tregua, sino alla fine.

Si può dire ancora molto di questo romanzo. Ad esempio, sottolineando che ricompare Jodo Cartamigli, eroe di altre avventure western. Che l’Ottocento rimane una delle cornici predilette dell’Autore. O che, nuovamente, come in tutti i lavori di Pardini, ci si trova di fronte a una scrittura che per la sua estrema naturalezza non può che definirsi sorgiva. Tanto da comporre una sorta di sceneggiatura, pronta per un film che soltanto un novello Sergio Leone saprebbe dirigere e che, comunque, interpretato in salsa diversa, appassionerebbe senz’altro anche Quentin Tarantino. A volersi spingere un po’ più in là, dovrebbe riconoscersi che Pardini è il degno erede di un filone glorioso, che è quello di Salgari, e che ha avuto tra i suoi protagonisti, sia pur a suo modo, e con spiccato eclettismo, un grande dimenticato, Gian Dauli. Con questi antenati, Pardini condivide un ingrediente segreto. Gusto per la trama e per la singola scena, per la descrizione della natura e degli stati d’animo, per l’equilibrata ricostruzione del profilo e dell’animo dei personaggi: è questo il propellente, tutto istintivo, che permette a Pardini di far calare il lettore nel bel mezzo delle vicende che racconta, in presa diretta; e di avvicinarsi, dunque, ai suoi importanti predecessori. Poi, certo, qualcuno potrà aggiungere che ne Il valico dei briganti si affrontano questioni che rendono il romanzo ancor più meritevole, visto che vi si intrecciano i grandi temi della povertà e dell’emigrazione, e delle strutturali prevaricazioni della giustizia dei potenti. Il fatto è che ciò che pare interessare veramente a questo scrittore – ciò per cui è doveroso essergli grati – è rappresentare, come in un quadro, la fisica invariabile dei sentimenti e delle singole traiettorie esistenziali che essi agitano, anche quando sono dominate da un destino dannato. Come a dire che il mondo degli uomini, a patto di guardarlo per come esso è, sa darci da solo le più efficaci lezioni.

Recensioni (di M. Baldrati; di D. Bregola; di O. Di Monopoli; di S. Gambacorta)

L’Autore presenta il suo libro

Un’intervista

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Scrivere racconti è difficilissimo. Trovarne un maestro è qualcosa di raro. Ma con Pardini – già saggiato con piacere in altro momento – non si sbaglia e questo libro lo dimostra. I suoi protagonisti sono uomini e animali, vivi e tenaci più che mai. Come lo stile che li rappresenta, che è diretto, asciutto, tonico e alimentato da un linguaggio chiaro. Il gusto complessivo, tuttavia, sa di antico, come si addice al tipo tradizionale della novella. Due storie sono semplicemente meravigliose: quella che dà il titolo alla raccolta, e che apre il volume; e La vendetta del gufo, che lo chiude. In entrambe – la prima è ambientata nel ‘500, la seconda ai nostri giorni – ci sono animali che rispondono con estrema determinazione ai soprusi degli uomini. Manifestano un senso di giustizia e un’alleanza che vanno ben al di là della rappresaglia ferina e paiono proiettati a ristabilire un elementare ordine morale e sociale. È così anche nel Fratello del lupo. Nel Gatto e in Serague emerge anche l’idea di una fratellanza che non è fatta soltanto di buoni sentimenti, ma dell’abbraccio di un comune destino di violenze e di miserie, e di una misteriosa forza di resistenza vitale. La sfida e la pantera porta la rappresentazione di questo orizzonte ad un grado di esemplarità ancor maggiore, in un intreccio di vicende in cui uomini e animali si incontrano, si scontrano e condividono dolori, rivincite e un singolare destino di lotta e di adattamento costanti. C’è dell’altro, però. In questi racconti il meccanismo di antropomorfizzazione cui le “bestie” sono sottoposte è ridotto al minimo. Difatti non serve ad alludere, in chiave meramente simbolica, a un modello umano alternativo; serve a renderci familiare ciò che gli animali ancora custodiscono. Ciò per cui essi lottano con tutte le forze, come nella Picciona etrusca, dove il legame con l’uomo, forse non a caso, è tenuto da un sacerdote di divinità destinate a scomparire. In tutto il libro vi è un solo racconto a fare eccezione al quadro complessivo: La pistolera, che è una sorta di spin-off di Jodo Cartamigli, noto e fortunato romanzo western dello stesso Autore. A guardar bene questa storia si nutre di un’ispirazione presente anche nelle altre: di quella percezione dell’esistenza, come infinita avventura, che tanto caratterizza le atmosfere create da Pardini.

Recensioni (di M. Magliani; di S. Fortuna; di A. Picca; di C. Bacchini; di O. Di Monopoli)

Un’intervista all’Autore

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Liberio Fraterni è un postiglione trentenne che sfreccia con la sua diligenza lungo la Valle del Serchio. Trasporta la posta, naturalmente, da e per Lucca. Ma porta anche molti passeggeri, e le occasioni di incontrare qualcuno di celebre non gli mancano: trattandosi di una storia che si snoda dalla fine dell’Ottocento all’avvento del fascismo, Liberio ha modo di incrociare pure Pascoli e Puccini. Un giorno, in una fiera, acquista da uno strano trio di mercanti un cavallo nuovo, Balio, un destriero tutto nero, tanto veloce e fiero quanto intrattabile ed enigmatico. Da quel momento i due, l’uomo e il suo cavallo, diventano alleati inseparabili. Sfidano le intemperie più dure e neppure i banditi riescono a sorprenderli. Tra Balio e Liberio il legame è così forte da stabilire una vera e propria empatia, anche se faticosa e indecifrabile, perché Balio, sempre scalpitante, sembra alfiere di strani presagi. Nel frattempo Liberio ha un figlio, Amilcare, che però, innamorato del treno, della tecnologia e delle possibilità che i nuovi trasporti consentono, si allontana presto dall’orizzonte ancestrale cui è avvinta la sua famiglia, alla ricerca del progresso più vorticoso. E della guerra, occasione irripetibile di accelerazione, collettiva e individuale; tanto che si arruola volontario nei bersaglieri, lungo il fronte dell’Isonzo. Il primo conflitto mondiale, infatti, è cominciato, e per Balio e Liberio ci sarà occasione di una nuova avventura, anche se il destino della famiglia – per un attimo ricomposto, quasi per miracolo – dovrà comunque compiersi nel modo più doloroso. Nel nuovo secolo le vicende degli uomini non saranno più coordinate con l’incedere naturale delle cose e dei suoi più nobili testimoni.

Sono due i motivi per cui questo libro mi piace. Il primo – che forse è un po’ troppo personale – tira in ballo l’ambientazione: i luoghi suggestivi di una Garfagnana che sa presentare ancora oggi i segni e i colori di un tempo mitico e sospeso, di un paese profondo e in qualche tratto immutabile e, per questo, confortevole, quanto meno dal punto di vista emotivo. Mi è bastato leggere, nel romanzo, qualche toponimo per avere la sensazione di potermici cullare. In quella vallata le tracce di un certo passato si trovano, eccome. A Barga il caffè Capretz continua ad esistere. A Ponte a Moriano la stazione di posta, col cambio dei cavalli, pare ancora di vederla; basta fermarsi Da Erasmo, dove, se non fosse per un incombente cavalcavia di cemento, ci si sentirebbe veramente sbalzati in un’altra epoca. Un altro motivo per apprezzare il racconto di Pardini è il suo tono felicemente fiabesco. Pardini, infatti, vuole dirci qualcosa che va ben oltre la rievocazione di un momento storico e che riguarda il passaggio critico da un vecchio a un nuovo mondo e l’importanza di tenere aperto un canale di comunicazione. È Balio a portare il romanzo su quella lunghezza d’onda, sin dalla sua misteriosa comparsa. Liberio è attratto dall’aura magnetica del cavallo, ma allo stesso tempo è pervaso da una costante inquietudine, che proprio l’animale tende a risvegliargli in presenza di alcuni eventi: come se Balio fosse misura di uno speciale rapporto con la natura, tale da renderlo presago di tutto ciò che può drammaticamente alterare quel rapporto; e che può spostare troppo velocemente un senso del limite che andrebbe viceversa coltivato con cura. Sicché Pardini, in definitiva, ammaliandoci in veste di scrittore-aruspice, ci narra in modo efficace della sapienza empatica degli animali e del loro linguaggio come di un medium per ristabilire e preservare un contatto tanto antico quanto necessario.

Recensioni (di Bartolomeo Di Monaco; di Flavia Piccinni; di Maria Caterina Prezioso; di Bruno Quaranta)

Alcuni “ritratti” di Pardini: da nazioneindiana.com; da minimaetmoralia.it; da succedeoggi.it

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