Liberio Fraterni è un postiglione trentenne che sfreccia con la sua diligenza lungo la Valle del Serchio. Trasporta la posta, naturalmente, da e per Lucca. Ma porta anche molti passeggeri, e le occasioni di incontrare qualcuno di celebre non gli mancano: trattandosi di una storia che si snoda dalla fine dell’Ottocento all’avvento del fascismo, Liberio ha modo di incrociare pure Pascoli e Puccini. Un giorno, in una fiera, acquista da uno strano trio di mercanti un cavallo nuovo, Balio, un destriero tutto nero, tanto veloce e fiero quanto intrattabile ed enigmatico. Da quel momento i due, l’uomo e il suo cavallo, diventano alleati inseparabili. Sfidano le intemperie più dure e neppure i banditi riescono a sorprenderli. Tra Balio e Liberio il legame è così forte da stabilire una vera e propria empatia, anche se faticosa e indecifrabile, perché Balio, sempre scalpitante, sembra alfiere di strani presagi. Nel frattempo Liberio ha un figlio, Amilcare, che però, innamorato del treno, della tecnologia e delle possibilità che i nuovi trasporti consentono, si allontana presto dall’orizzonte ancestrale cui è avvinta la sua famiglia, alla ricerca del progresso più vorticoso. E della guerra, occasione irripetibile di accelerazione, collettiva e individuale; tanto che si arruola volontario nei bersaglieri, lungo il fronte dell’Isonzo. Il primo conflitto mondiale, infatti, è cominciato, e per Balio e Liberio ci sarà occasione di una nuova avventura, anche se il destino della famiglia – per un attimo ricomposto, quasi per miracolo – dovrà comunque compiersi nel modo più doloroso. Nel nuovo secolo le vicende degli uomini non saranno più coordinate con l’incedere naturale delle cose e dei suoi più nobili testimoni.
Sono due i motivi per cui questo libro mi piace. Il primo – che forse è un po’ troppo personale – tira in ballo l’ambientazione: i luoghi suggestivi di una Garfagnana che sa presentare ancora oggi i segni e i colori di un tempo mitico e sospeso, di un paese profondo e in qualche tratto immutabile e, per questo, confortevole, quanto meno dal punto di vista emotivo. Mi è bastato leggere, nel romanzo, qualche toponimo per avere la sensazione di potermici cullare. In quella vallata le tracce di un certo passato si trovano, eccome. A Barga il caffè Capretz continua ad esistere. A Ponte a Moriano la stazione di posta, col cambio dei cavalli, pare ancora di vederla; basta fermarsi Da Erasmo, dove, se non fosse per un incombente cavalcavia di cemento, ci si sentirebbe veramente sbalzati in un’altra epoca. Un altro motivo per apprezzare il racconto di Pardini è il suo tono felicemente fiabesco. Pardini, infatti, vuole dirci qualcosa che va ben oltre la rievocazione di un momento storico e che riguarda il passaggio critico da un vecchio a un nuovo mondo e l’importanza di tenere aperto un canale di comunicazione. È Balio a portare il romanzo su quella lunghezza d’onda, sin dalla sua misteriosa comparsa. Liberio è attratto dall’aura magnetica del cavallo, ma allo stesso tempo è pervaso da una costante inquietudine, che proprio l’animale tende a risvegliargli in presenza di alcuni eventi: come se Balio fosse misura di uno speciale rapporto con la natura, tale da renderlo presago di tutto ciò che può drammaticamente alterare quel rapporto; e che può spostare troppo velocemente un senso del limite che andrebbe viceversa coltivato con cura. Sicché Pardini, in definitiva, ammaliandoci in veste di scrittore-aruspice, ci narra in modo efficace della sapienza empatica degli animali e del loro linguaggio come di un medium per ristabilire e preservare un contatto tanto antico quanto necessario.
Recensioni (di Bartolomeo Di Monaco; di Flavia Piccinni; di Maria Caterina Prezioso; di Bruno Quaranta)
Alcuni “ritratti” di Pardini: da nazioneindiana.com; da minimaetmoralia.it; da succedeoggi.it
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