Tutti conoscono Marcel Duchamp. Almeno per l’esposizione del famoso orinatoio del 1917, che viene sempre ricordato come qualcosa di assolutamente rivoluzionario. E lo è stato davvero. Ma siamo sicuri di averne compreso il senso fino in fondo? Il Duchamp politique di Pablo Echaurren – edito in versione bilingue, inglese e italiana, con un’originale postfazione di Marco Senaldi – offre una lettura incisiva e illuminante. Come può essere quella di un artista – pittore singolarissimo e maestro del graphic novel – che a Duchamp ha sempre guardato come a un punto di riferimento essenziale. Anzi, esistenziale, perché morale, oltre che politico. Un passaggio del libro riassume efficacemente questi caratteri: “In una società di finzione e rappresentazione, in cui le immagini si sono separate dalla vita e lo spettacolo domina ogni campo umano come ornamentazione, come produzione di oggetti-immagine, come insieme di merci che contemplano se stesse in un mondo da esse creato, in una simile società Duchamp adotta oggetti scarni, elementari, sfuggenti alle leggi dell’apparire, sottraendoli al mondo indistinto della merce. Oggetti che non si ergono sui loro produttori espropriati, che emergono in sordina dal paesaggio urbano, troppo urbano, che scoprono un inedito e imprevisto valore d’uso, che riacquistano dignità e si riqualificano nella scelta dell’artista” (p. 98). Questa, di per sé, non è una ricostruzione nuova. E se ne può comprendere bene anche l’attualità, se non la profezia su ciò che molta arte contemporanea sarebbe stata ed è. Basta leggere l’ultimo, aguzzo libro di Andrea Bellini. Tuttavia, a colpire nel segno è la maniera con cui la traiettoria duchampiana è presentata, perché ne evidenzia tutta la radicalità.

L’estrema ironia, la critica delle istituzioni museali, la pratica di uno stile di vita essenziale, il rigetto del denaro e delle sue infrastrutture sociali, la scelta della decostruzione apparentemente più casalinga e spiazzante, eppure ricercata, perché animata dalla volontà di restaurare la profondità intrinseca delle cose ben fatte: sono tutte coordinate di un manifesto umanista che da artistico si fa totalizzante, diremmo antropologico. L’avvio del ragionamento compiuto nel saggio – che induce a un parallelo ficcante tra l’universo duchampiano, l’arte medievale e una sorta di ascetismo filosofico – spiega i fondamenti teorici del ready-made e la sua valenza etica e metodologica. Che nulla ha a che fare con la distruzione dell’arte o dell’artista, bensì, all’opposto, si propone di rigenerarne le esperienze. Quasi in un percorso di liberazione da tutti i fattori che possono, viceversa, svolgere un ruolo condizionante o, addirittura, standardizzante. Si potrebbe scorgere, qui, un sorprendente punto di contatto con il pensiero heidegerriano, con le riflessioni ontologiche su che cosa sia “una cosa”. Chi l’avrebbe mai detto? Alla fine del saggio viene spontaneo tornare all’inizio, per constatare che Echaurren ha proprio ragione: Duchamp è “un palinsesto su cui scrivere e riscrivere all’infinito senza pregiudicarne la superficie, senza mai graffiarla, intaccarla, o anche solo scalfirla”. Perché “tutti giochiamo a scacchi con Marcel, ciascuno di noi portandosi appresso una propria scacchiera è un proprio schema variamente, diversamente, truccati”.

Recensione (di G. Toni)

Conversazione con Pablo Echaurren

Condividi:
 

In un’isola vive un vecchio pescatore. Ma non è una favola per bambini. È il contesto di un’oscura, tragica rappresentazione, nella quale la voce narrante si rivolge direttamente al protagonista del racconto, per rendergli del tutto cosciente il suo inevitabile e irredimibile destino di dannato. Il vecchio, infatti, non è un personaggio positivo. Dopo la scomparsa della moglie, maltrattata e picchiata per tutta la vita, e infine morta per una grave malattia, segue pervicacemente una routine che lo ha portato a un abbrutimento definitivo. Pesca in astiosa solitudine nelle acque che ha contribuito a inquinare; beve e bestemmia nella bettola in cui si riuniscono i relitti umani dell’isola, ormai svuotata della sua originaria comunità; odia, ricambiato, tutti i suoi vicini, il parroco e il sindaco, e naturalmente anche i turisti, che irrompono sgraditi e chiassosi nel fine settimana; disprezza anche gli unici parenti che gli sono rimasti e che, non a caso, vivono sulla terraferma. L’Autore – la voce narrante – lo aiuta a capire il perché della sua condizione: lo guida, cioè, in un processo di riflessione, che ripercorre, in crescendo, episodi salienti del suo passato e gli rivela in questo modo, passo dopo passo, la sua violenza e il suo egoismo, le grandi colpe di cui si è macchiato e la ragione assoluta – di giustizia quasi divina – dell’esperienza di costante consunzione in cui la vecchiaia lo costringe a sopravvivere.

Un primo modo di leggere questo libro è immaginare che la voce narrante non sia quella dello scrittore, ma quella di Dio, che chiede a Caino dov’è suo fratello. Di quale delitto si è macchiato il vecchio? Perché è condannato a vagare disperatamente per l’isola, reietto tra i reietti, allo stesso modo di come Caino è stato condannato a vagare errabondo sulla terra? Va osservato che l’isola, per Frizziero, è innanzitutto l’Isola; un’entità maiuscola, che ha una dimensione universale, a significare il confine compiuto del mondo nel quale il vecchio / l’uomo è costretto e su cui può colpevolmente consumarsi nel suo odio. Da questo punto di vista, nel romanzo c’è un che di infernale, nel senso dantesco. Si può anche intravedere un altro modo di leggere la storia dell’Isola, dietro i cui pochi, riconoscibili lineamenti pare di scorgere un’isola vera e propria, quella di Pellestrina, nella laguna veneta. L’isola, quindi, riflette anche un’altra immagine, tutta reale: di un arcipelago in stato di graduale abbandono e spopolamento; un luogo di occasioni e di esperienze perdute, la cui umanità, lasciata a se stessa, non può che tradurre, nei pensieri nostalgici, nelle aspirazioni retrospettive e nei gesti ripetuti di ogni giorno, un radicale svuotamento morale. Sensazioni che nulla hanno a che fare con quelle che dall’insularità aveva ricavato Paolo Barbaro, in racconti carichi di suggestione. In questo scenario, poi, a guardar bene, il soggetto negativo non è soltanto il vecchio. Anche gli altri attori non si distinguono, incarnando le stereotipiche deformazioni di un paesone triste, in disarmo sociale ed economico, rispetto alle quali persino il vecchio manifesta un qualche senso critico. Tempo fa, con stile e tono molto diversi, Francesco Maino ci ha raccontato lo sgretolamento di un pezzo di Veneto, altrettanto afferrabile; oggi Sandro Frizziero – che con questo lavoro corre giustamente per il Campiello – ci offre un’altra istantanea del comune decadimento, sempre amara e non meno disperante.

Recensioni (di G. De Rinaldis; di G. Mecca; di F. Ottaviani)

La presentazione del libro, firmata da Tiziano Scarpa

Con l’Autore, sui luoghi del romanzo

Condividi:
 

La bella Clara Salvemini, fascinosa rampolla di un ricco palazzinaro pugliese, viene trovata morta: le circostanze della sua scomparsa sono misteriose. Qualcuno sa che non si è trattato di un suicidio, e sembra saperlo anche il padre Vittorio, che cerca di mettere a tacere ogni cosa. Le sue preoccupazioni sono tutte per l’azienda, implicata in delicate indagini giudiziarie e amministrative sulla discussa realizzazione di un grande complesso edilizio. La moglie Annamaria pare quasi indifferente. Ruggero e Gioia, gli altri due figli, reagiscono in modo diversamente equivoco: il primo è un brillante e precoce oncologo di fama internazionale, ed è egoisticamente seccato dall’accaduto; Gioia è ancora una ragazzina, e il suo dolore si confonde morbosamente con il dispiacere di non trovarsi lei stessa al centro dell’attenzione. C’è anche l’altro figlio, Michele, quello più strano e più difficile, quello introverso e un po’ matto, che se ne è andato da Bari e vive a Roma, e che torna nella grande villa di famiglia proprio in occasione del lutto. È lui a mettersi alla ricerca della verità – tra “figuri” più o meno degradati…. – riuscendo così a scoprire, passo dopo passo, che la morte dell’amata Clara nasconde segreti ancor più oscuri e indicibili. Alla fine resteranno soltanto macerie.

Questo romanzo è il fresco vincitore del premio Strega 2015. Si potrebbe definire come un “Twin Peaks all’italiana”, nel quale al carattere visionario delle ambientazioni alla Lynch si sostituiscono l’uso ostinato di uno stile sofisticato e la ricostruzione feroce di luoghi e personaggi naturalmente perduti. In questi effetti Lagioia è assai bravo: riesce a moltiplicarne la forza espressiva in uno schema narrativo che alterna in modo ipnotizzante voci e punti di vista, e che vuole trasmettere al lettore il senso di un giro di vite progressivo, l’impressione in un gorgo amorale che si fa via via più profondo e che si manifesta con violenza solo nelle ultime pagine. Lo scrittore, quindi, va senz’altro lodato: è un rondista sui generis – dei nostri tempi, diremmo – che crede fortemente nelle capacità nobilitanti e ordinanti della parola, ma in funzione eticamente rivoluzionaria. Nel suo tragico racconto, infatti, l’unica cosa pulita è proprio ciò che alcune critiche hanno voluto giudicare in modo troppo severo, ossia la contorsione del linguaggio, così pervicacemente letterario; ma per l’Autore è chiaro che è la disciplina della cultura il pilastro sulla base del quale ridare un senso ad una società degradata. Meno convincenti, invece, sono i profili che animano la trama, in primo luogo perché corrispondono apertamente a prospettive molto sperimentate e forse ormai scontate: l’intreccio tra sesso, droga, affari e poteri forti; l’aridità di una classe sociale senza scrupoli, che si è arricchita ad ogni costo, e di un Paese che non riesce mai ad emanciparsene; la disgregazione di una famiglia priva di amore, in cui ciascuno cerca di salvare soltanto se stesso; la purezza del personaggio debole, guarda caso il figliastro, il più sensibile e intelligente, condannato tra i reietti perché vittima di un sopruso originario, ma destinato ad un inutile riscatto finale. Soprattutto, però, l’aspetto un po’ delicato del libro è che il carattere magico e tenebroso del linguaggio non si salda del tutto a quella che avrebbe dovuto essere la conseguente raffigurazione di un’ambiguità altrettanto complessa. Sicché il cliché rischia di rimanere tale, senza diventare epico. Ma Lagioia non è Lynch, evidentemente, e non è neanche Stephen King o Joe R. Lansdale. Per poterlo apprezzare occorre essere ancora troppo colti e raffinati, e il romanzo rischia di dimostrare l’esatto opposto di ciò che – politicamente, forse – avrebbe voluto veicolare: non basta la parola (purtroppo) per fare la morale.

Recensioni (di Luca Illetterati, di Marilù Oliva, di Davide Zizza, di Matteo Bianchi)

Un’intervista all’Autore

Condividi:
 

Chi sono i radical chic “all’italiana”? Di certo non sono quelli che Tom Wolfe aveva battezzato così nel 1970, sul Magazine del New York Times. Sono molto più comuni e avvicinabili di quello che sembra, anche se ne hanno per tutti e per tutto, perché sono interpreti, come i primi, di una visione del mondo. Per spiegarcelo, Daniela Ranieri ce ne presenta alcuni prototipi sulla terrazza romana della sua amica Luciana e li fa interagire, lasciandoli dialogare liberamente di cucina, arte, cultura, letteratura, arredamento, sesso, politica, religione, viaggi… Ogni capitolo è un appuntamento tematico con questa singolare dimensione antropologica e con i commenti – ora seri e quasi scientifici, ora divertiti – che l’Autrice formula in ogni occasione, un po’ per agevolare la comprensione del lettore, un po’ per suscitarne l’ironia. Ma il testo ci aiuta anche a chiarire, tra tanti e inevitabili sorrisi, come e perché sia possibile che nel popolo della sinistra nazionale si siano generate le posizioni sofisticate e oligarchiche, e intimamente contraddittorie e parassitarie, che caratterizzano il complesso, e nient’affatto minoritario, universo degli aristocratici democratici. Grandi conclusioni, alla fine, non sono possibili, ma la climax che cresce lungo tutto il testo esplode in sette pagine definitive, di intensa e dettagliata fisionomia dei radical chic e della loro (disperante) eredità morale e intellettuale. Le ultime righe sono più esplicite che mai: “Sono giustamente duri con chi possiede solo soldi e nessuna cultura e nessuna sensibilità, ma con la stessa durezza dimenticano, disprezzano o ignorano chi non ha nulla di nulla. Hanno capito che la Storia non è affatto finita, e con uno svolazzo della mano e un sorrisetto il più possibile asprigno hanno aggiunto «Purtroppo!»”.

Questo libro è come una quiche da competizione: pietanza raffinata dalla preparazione apparentemente facile, che non sempre riesce bene. In tal caso il risultato è decisamente fragrante, perché la sfoglia tiene la cottura. Daniela Ranieri, infatti, scrive bene; adatta perfettamente lo stile alla materia, composta com’è da un mix di ricercatezze esemplari, tremendi luoghi comuni e vuoti svolazzi da gossip. Siamo di fronte ad una scrittrice col martello (l’allusione nietzscheana non è per nulla casuale, visto il titolo dell’ultimo capitolo…), che, senza indulgere ad una gravitas quanto mai rischiosa, fa satira e ricerca sociologica insieme. Soprattutto, però, la Ranieri, nel suo ritratto impietoso della sinistra borghese, riesce ad essere convincente con totale e irriverente spontaneità, perché sin dall’inizio si confessa essa stessa complice compromessa del mondo che non la persuade più: “la mia mente è una villa in rovina fuori dall’Impero, anzi: l’isolotto rotondo dentro questa, anzi, meglio: la mia mente è un prato di sterpi di ferrovia, lontano, con dentro, semisepolto, qualche reperto, due o tre colonne di templi pagani, il resto incenerito di un sacrificio; alle spalle ha un giardino di un monastero benedettino, e il ventre e la groppa gonfi di catacombe”. La parte migliore dello spettacolo allestito dall’Autrice è quella “Sulla politica, il voto e la rappresentanza”, non solo per il fatto che l’analisi è scopertamente più profonda, ma anche per la ragione che si intravede assai bene l’origine del vuoto pneumatico: se non c’è più differenza tra destra e sinistra, allora anche gli ideali di progresso possono farsi settari e sprezzanti. Viene da pensare, in fondo, che quella radical chic sia una super-filosofia: la dimensione che una larga fila di perdenti ha saputo e vuole ancora costruirsi per cercare di mascherare la propria incapacità di cambiare la società e per ritagliarsi, in un contesto così povero, un posto al sole meno banale di quello che le potrebbe altrimenti spettare.

Un’intervista all’Autrice

Daniela Ranieri ospite di Melog

Recensioni (di Andrea Pomella, Alessandro Gnocchi, Michele Masneri, Francesco Pacifico)

Dai radical chic ai nuovi snob: un pezzo di Alessandro Piperno

Condividi:
 

È da tempo che Adelphi sta ripubblicando le opere di Thomas Bernhard. Ma ogni nuova release, piccola o grande, è sempre un evento. L’impronta potente, tagliente e dissacrante del grande scrittore e drammaturgo austriaco vi è sempre riconoscibile, e naturalmente ciò consente al lettore di trarre grandi soddisfazioni. Tanto più in questa serie di quattro racconti (Goethe muore, Montaigne, Incontro, Andata a fuoco), che compendiano in forma di pillole di autentica letteratura buona parte della singolarissima esperienza bernhardiana e quindi dello stile, del tono e dei temi che la contraddistinguono.

Nel primo racconto – che nell’edizione originale palesa un’intenzione quasi sarcastica già nel suo titolo: uno “strascicato” Goethe schtirbt, anziché Goethe stirbt – Bernhard ridicolizza il grande poeta tedesco o, più precisamente, l’immagine dorata e stereotipata che di esso ha costruito la cultura popolare di lingua germanica. E così, in una dimensione temporale del tutto fantastica, lo ritrae morente, nell’atto di mobilitare e condizionare tutti i suoi più stretti adepti, e di esprimere loro un capriccio del tutto paradossale, quello di conoscere Wittgenstein. L’epilogo è tragicomico e distruttivo, poiché non solo il desiderio impossibile non potrà essere esaudito, ma si scopre che anche le ultime parole di Goethe non sono state quelle che la tradizione ha celebrato: il mito cede decisamente il passo alla coscienza di un’indifferenza davvero tombale. O di una condanna implacabile, che è quella che Bernhard non riserva soltanto al suo Paese ed alla volgarità che ne avrebbe travolto ogni autentica manifestazione intellettuale ed umana, fino all’incendio dell’esperienza nazista (così è, ad esempio, nell’ultimo racconto). Nel terzo e nel quarto racconto, infatti, il mirino di Bernhard è rivolto, come in altri casi, nei confronti dei genitori. Per i giovani protagonisti dei due brani l’unica speranza o è l’isolamento salutare nella serena meditazione filosofica della torre, in compagnia dei pensieri di Montaigne, o è un gesto, letteralmente bruciante, di liberazione da tutto ciò che può simbolicamente rappresentare l’ipocrisia di un’infanzia piccolo-borghese, “cresciuta” tra vuote ambizioni e una crudele disaffezione per tutto ciò che può essere un vero rapporto d’amore.

È sempre estremo Bernhard, già nell’insistenza ossessiva del suo periodare, in un apparente e continuo parlare solo verso se stesso, come se tutti i suoi personaggi fossero voci di un disorientante teatro delle marionette, mosse dalla stessa mano in un meccanismo del tutto autoreferenziale. Ma la follia che sembra animare quei personaggi, il più delle volte, non è la follia di determinati tipi umani o del loro stesso Autore; è un esercizio di razionalità assoluta, di sconvolgente lucidità autoanalitica, di un’emotività pensante che sembra follia soltanto perché, in verità, è la realtà che la circonda ad esserlo propriamente e a ribaltare su pochi, sfortunati e soli, l’immagine della degenerazione dei molti. È così che la voce di Bernhard si fa critica feroce nei confronti della società, delle finzioni che ne perpetuano gli idoli e della sua strutturale incapacità di elevarsi al di sopra di se stessa e, come tale, di comprendere realmente la ricchezza interiore di ciascun individuo e il tesoro di autenticità e di consapevolezza che la vera cultura può trasmettere. Questa voce, forse, è destinata ad essere sempre pertinente e ad infonderci un pessimismo cosciente e terribilmente convincente; eppure proprio questa voce è ciò che di più indispensabile si possa immaginare per preservare in ciascuno di noi una sia pur minima luce di confortante ragione

“Goethe schtirbt”: in lingua originale, in italiano, in inglese

Recensioni: di Goffredo Fofi, Luigi Forti, Riccardo De Gennaro, Paolo Mauri, Massimiliano Parente, Giorgio Montefoschi

Su Bernhard: Bernhardiana, Thomas Bernhard Gesellschaft, Thomas Bernhard in English

Un ricordo di Thomas Bernhard (di Daniele Benati)

Un’opera teatrale di Bernhard: Minetti. Ritratto di un artista da vecchio (produzione del Teatro stabile di Bolzano, 1983-1984)

Una classifica tutta personale: che cosa (e quanto) mi piace di Bernhard?

  1. Il soccombente (Adelphi)
  2. Correzione (Einaudi)
  3. Perturbamento (Adelphi)
  4. Antichi maestri (Adelphi)
  5. Gelo (Einaudi)
  6. Cemento (SE)
  7. Il nipote di Wittgenstein (Adelphi)
Condividi:
 

Ho seguito un suggerimento, per me molto qualificato, e ho dato, così, una seconda possibilità all’Autore del fortunato Le dodici domande, il bestseller da cui Danny Boyle ha tratto, pressoché istantaneamente, l’ancor più fortunato The Millionaire. È sempre difficile dare ad uno scrittore una seconda possibilità: specialmente quando la prima si è tradotta in un’esperienza positiva e soddisfacente ma senza particolari esaltazioni. Qui, poi, si partiva ulteriormente “in salita”: i “sei sospetti” è un titolo che, dopo le “dodici domande”, rischia di nascondere i “tre porcellini”… Per non dire della mole, che, a dispetto del “dimagrimento” suggerito dal titolo, è quasi esattamente doppia rispetto a quella del precedente romanzo: 533 pagine nette. Il libro, dunque, che in Italia è arrivato nel 2009, l’avevo volutamente saltato. E invece…

E invece i pregiudizi sono sempre duri a morire, ed è giusto, quindi, che vengano impietosamente smentiti. I sei sospetti è, ancora, “un’esperienza positiva e soddisfacente”, e Swarup si conferma un divertito interprete delle più disparate pulsazioni della società indiana. Anche la mia fonte, così, vede ulteriormente rafforzata, ai miei occhi, la sua credibilità.

Diversamente da quanto ci si potrebbe attendere, I sei sospetti non è un giallo e non è un thriller. Nella consueta pagina dei Ringraziamenti, Swarup dice di aver voluto raccontare “le storie intrecciate di sei esistenze separate in uno spazio rigidamente schematico”. A me sembra che si tratti una comédie humaine – più alla Saroyan che alla Balzac – occasionalmente esplosa attorno ad un grasso fatto, tutto immaginario ma per nulla inverosimile, di cronaca nera, nel quale, per le circostanze più varie, sono sospettati sei individui. Questi, in teoria, per provenienze, ceto, cultura, professione, riferimenti ideali e religiosi, mai avrebbero dovuto incontrarsi; e invece la sordida identità della vittima dell’omicidio di cui sono accusati finisce curiosamente per attirarli come un magnete e per sovrapporne gradualmente le sorti.

I profili dei sei personaggi sono, a loro volta, sei diversi e piccoli romanzi. I “tipi” di cui essi narrano incarnano modelli molto “potenti” ed efficaci: il burocrate laido e corrotto, la diva del cinema alla ricerca della redenzione personale, il giovane aborigeno come perfetto “pesce fuor d’acqua”, il ladruncolo speranzoso del grande amore e del successo, il politico “mafioso” e senza scrupoli, il turista americano dallo sguardo bovino. Queste figure costituiscono il luogo di una satira feroce nei confronti di un corpo sociale in cui tutto, davvero, è possibile, anche se le più nobili aspirazioni paiono vocate alla dimensione ingannevole di miti oggi inadeguati (v. la possessione di Mohan Kumar), di innocenti e flebili speranze primitive (come sono quelle del povero Eketi), di ingenue e terribili consapevolezze capaci di “non bucare” mai il muro dei sogni (v. il rapimento di Larry da parte di una cellula terroristica). Sono il compromesso, la degradazione morale e culturale, un fato di intrinseca sudditanza e povertà ad avere la meglio, posti come sono su di uno sgargiante palcoscenico di sfrenato consumismo, ambizione, violenza e fobie collettive.

L’epilogo, però, non è atteso. Se tutte queste storie potrebbero anche non accadere, allora anche la scoperta del vero colpevole deve essere complessa. Nulla più è lecito aggiungere… se non che, nel finale, Swarup dimostra di aver metabolizzato un certo Paul Auster e che, se ci si vuole divertire anche al termine della lettura, è sufficiente sostituire Vicky Rai con qualche noto volto italiano, scuotere il vaso di Pandora ed abbandonarsi a trame altrettanto in-credibili.

Una breve intervista all’Autore

Condividi:
© 2024 fulviocortese.it Suffusion theme by Sayontan Sinha