Su questo racconto si devono subito chiarire due cose: 1) conoscere Joseph Roth soltanto per La marcia di Radetzky, per La cripta dei cappuccini o per Giobbe è un delitto, perché sono senza dubbio le novelle, i pezzi più brevi e apparentemente più facili, a confermare l’Autore austriaco come un vero maestro; 2) l’occasione per apprezzare questa singolare bravura è sempre buona, nel senso che anche le estemporanee iniziative editoriali promosse dai quotidiani possono condurci a riscoperte meravigliose e, con ciò, a qualche prelibatase e, con ciò, a qualche gustosa “degustazione” letteraria. Infatti Il capostazione Fallmerayer (1933), già comparso nelle raccolte più eleganti di Adelphi e di Passigli, non perde certo il suo fascino nella leggerissima edizione stampata per Il Sole 24 Ore nella serie I libri della domenica (edizione nella quale viene accostato, come nelle precedenti occasioni, anche ad un altro capolavoro, il racconto intitolato Lo specchio cieco, del 1925). È un concentrato di perfezione e di equilibrio, ma anche di significati molteplici e nascosti.
In una prosa essenziale, ma soppesata con attenzione certosina, Roth ci descrive, al principio, la vita ordinaria e monotona di un capostazione austriaco, Adam Fallmerayer. Per lui si tratta di giornate sempre uguali, passate a compiere sempre le stesse azioni, in un’atmosfera senza accenti. Anche la moglie e le due figlie gli sembrano quasi toccate in sorte. La felicità di questa famiglia non è “quella dei ricchi”, non è quella del “Sud”, di quel luogo meraviglioso verso il quale si dirigono i treni velocissimi che in quella stazione non si fermano mai, di quei posti nei quali anche loro hanno la possibilità, ma solo per una breve vacanza premio, di soggiornare e di capire che, in verità, i “ricchi” portano il “Sud” in qualsiasi luogo si trovino. Poi, tutto d’un tratto, in questo clima malinconico irrompe l’evento, e qui comincia la seconda parte del racconto. Perché proprio uno di quei velocissimi treni, diretti al Sud, deraglia rovinosamente, poco distante dalla stazione di Fallmerayer. Questi si precipita, quasi timoroso, per offrire il suo aiuto, ma rimane bloccato ed incapace di reagire. Tuttavia, sempre all’improvviso, deraglia egli stesso: viene letteralmente colpito, tra le persone che viaggiavano sul treno e che sono state portate in salvo, da una donna, una contessa russa, che cerca di assistere e di cui finisce segretamente per innamorarsi. Dopo qualche giorno, passato lo shock dell’incidente, la donna riparte per raggiungere il marito, ma nella casa di Fallmerayer le sue tracce sono ormai indelebili e le cartoline di ringraziamento che giungono alla stazione non fanno che renderle ancor più visibili. Passa così del tempo, l’Impero austro-ungarico entra in guerra, è il primo conflitto mondiale e Fallmerayer viene destinato al fronte orientale, in Russia: il deragliamento interiore non può che prendere definitivamente la strada cui era destinato sin dal principio. Il capostazione coglie ogni opportunità disponibile per studiare il russo e per ritrovare la nobildonna Anja Waleska, con la quale fugge fino a Monte Carlo, in un susseguirsi di piccole e grandi vicende, descritte da Roth con il senso di un’estrema naturalezza, sino ad un epilogo parimenti inevitabile.
Al termine, preso dallo stupore per la sensazione di felice compiutezza che la novella mi ha lasciato, mi accorgo che le interpretazioni e le letture “colte” di questo ineguagliabile pezzo della narrativa mitteleuropea sono moltissime. Alcuni, stimolati dal nome del protagonista (Adam), vi scorgono un’allegoria di stampo biblico, quasi che il “deragliamento” di Fallmerayer corrisponda alla “caduta” del peccato originale. Altri, sulle suggestioni del ritrovamento di un’ulteriore ed inedita versione del racconto tra le carte di Marlene Dietrich, favoleggiano sul finale alternativo che in essa è contemplato e sul fatto che, forse, Roth, pur non rinunciando all’esito drammatico, avrebbe dissipato ogni dubbio sull’esistenza di sentimenti autentici. Altri ancora, poi, analizzano i minimi dettagli della novella, cercando di trarne conferme sull’interpretazione complessiva del pensiero socio-politico dello scrittore, ad esempio immaginando che lo studio della lingua russa da parte di Fallmerayer sia un gesto di simbolica affermazione dell’austro-slavismo di cui Roth si era fatto portavoce. D’altra parte, e sempre restando al filone socio-politico, si potrebbe anche pensare che, come in una sorta di fosca ma acuta premonizione, il mediocre capostazione di provincia altri non sia che la “figura” di una piccola borghesia ineluttabilmente travolta dagli sconvolgimenti del Secolo e dal sogno “impossibile” e “irrazionale” di trovare sorti nuove e “più grandi” di quelle realisticamente consegnatele dalla Storia. Non manca, tra l’altro, chi evidenzia il sottile e continuo gioco di rimandi tra l’opera di Roth e altre grandi opere della letteratura continentale, come se si potesse constatare, anche in questo piccolo gioiello, la ricorrenza di immagini e di stilemi di per sé significanti: Fallermayer si innamora di una nobildonna russa, così come il giovane Castorp, ne La montagna incantata di Thomas Mann, si invaghisce di madame Chauchat, consorte di un funzionario russo.
A mio giudizio, tuttavia, il fascino del racconto non risiede unicamente in questo suo singolare spessore, bensì in ciò che rende possibile una tale fecondità, e quindi nell’aura che l’Autore ha costruito con voluta sapienza. È come un’onnipresente enigmaticità, unita, però, ad un senso di scivolamento complessivo che, allo stesso modo, pervade ogni pagina. A ben vedere, quest’aura è quella di un disagio palpabile, che si avverte dall’inizio alla fine, quando si rivela assumendo i contorni definitivi di una sconfitta, dell’unica certezza effettivamente disponibile. Ebbene, la magia è tutta qui: comprendere che la grande letteratura ci arricchisce e ci sazia comunque, anche quando vuole decifrare il fato individuale e collettivo, e quindi anche quando può scuoterci e intimorirci.
Una suggestiva puntata di Pickwick (da Rai.tv), sulle orme di questo racconto, ma non solo…