Pierre Dantherieu, un diplomatico francese, è arrivato a Vienna per partecipare ai lavori di una Commissione internazionale, incaricata di dettare le regole per la navigazione sul Danubio. È il 1927 e la vecchia capitale dell’ex Impero non è più la città di un tempo. Tra le sue strade si aggira, nostalgico, anche Napoleone de Maleen-Louis, che fino al 1914 aveva lavorato presso l’ambasciata austro-ungarica a Londra e ora, privato del suo status originario, si trova a fronteggiare imbarazzanti ristrettezze economiche. Un improvviso e fortunato incontro, però, gli permette di tornare nel giro, al servizio della segreteria della Commissione internazionale. Qui non incrocia soltanto Dantherieu, che già aveva conosciuto negli anni londinesi. Si accompagna, infatti, a due singolari collaboratori, il misterioso e taciturno Massimiliano Dego e la puntuale e affascinante Théa Dux. Proprio questi personaggi – che non sono ciò che sembrano – si troveranno ben presto al centro di una trama geopolitica dagli esiti quasi sorprendenti, con la complicità dell’erudito ed eccentrico professor Moessel e per la felicità del navigato Napoleone, che tra ricordi struggenti e sogni impossibili verrà premiato e riuscirà a riabbracciare il milieu britannico che più gli è congeniale. Di questo romanzo dimenticato, pubblicato nel 1933 e finora inedito in lingua italiana, colpisce in primo luogo la rappresentazione dettagliata, rigogliosa e ricercatissima di un altro mondo: di un’epoca, già allora tramontata, di grandi ma ormai scomparse dinastie, di ricevimenti sontuosi e raffinatezze irripetibili, di bellezze e intelligenze tenaci ed elegantissime, tanto corteggiate quanto sfuggenti. Sembra quasi, quello di Ghyka, un poema sull’Europa della nobiltà e della tradizione, che la prima guerra mondiale aveva messo irrimediabilmente in ginocchio e che di fronte alle crisi sociali ed economiche del dopoguerra e alle montanti dittature pare ancor più soccombente. È così solo in parte, perché il racconto da favola nasconde evidentemente il profondo, consapevole tormento del suo autore. Da un lato, Ghyka lascia immaginare che il riscatto del vecchio continente potesse venire da un inedito connubio, autenticamente mitteleuropeo, tra le più gloriose stirpi e le forze più generose delle nuove nazioni. Dall’altro lato, però, la sua onniscienza di narratore tradisce la più intima disillusione, perché nel momento in cui inscena l’incantamento perfetto riesce a farsi profeta delle imminenti sventure, intuendo anche l’identità dei futuri vincitori. Piccola glossa finale: l’Autore – che coltiva una forma espressiva suadente, quasi ammaliante, e che indugia nello stimolare l’importanza di ricorrenze o coincidenze magiche o fatali – si cela qua e là dietro l’identità di molte delle sue creazioni, e anche dietro l’acutezza di alcune analisi storiche e artistiche; la lettura dell’opera di Bruegel il Vecchio non impressiona solo Dantherieu, ma promette attimi di soddisfazione pure per i palati più esigenti.

Recensioni (di S. Viva; di D. Lunerti; di S. Solinas; di E. Trevi)

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Nella Vienna post-imperiale e repubblicana del 1919, attanagliata dai disagi e dalla povertà di un dopoguerra durissimo, l’ispettore August Emmerich si imbatte nella morte misteriosa di tre reduci del fronte orientale. C’è qualcosa di strano che lega i decessi ed Emmerich, ex soldato lui stesso, è convinto, a dispetto di ciò che pensa il medico legale, che vi sia in circolazione un pericoloso assassino. Scortato dal giovane collega Winter, decide di abbandonare le indagini sulla borsa nera, più attiva che mai, e cerca di mettersi sulla pista del giallo, alla ricerca della verità, ma anche di una promozione a lungo sperata. Il destino, però, sembra cospirare a suo sfavore. Una vecchia ferita lo tormenta in modo insopportabile e il suo superiore gli è caparbiamente ostile. A capo dei borsaneristi, inoltre, c’è lo spregiudicato Veit Kolja, vecchia conoscenza e vecchia canaglia: di lì non si passa; gli tocca pure di far buon viso a cattivo gioco. Per di più, nel frattempo, nel torno di pochi giorni, Emmerich perde la compagna, resta senza casa, viene completamente derubato ed è addirittura arrestato, accusato della morte di una giovane donna. Naturalmente se la caverà, facendo ricorso a tutta la sua tenacia. Scoprirà, tuttavia, che l’onda lunga del conflitto non si è abbattuta su Vienna soltanto con i morsi della fame e della crisi, e che i suoi più terribili e innominabili artigli sono ancora vivi e vegeti, e molto vicini.

August Emmerich è un investigatore che appartiene alla serie degli empatici; assomiglia più a Marlowe che a Dupin, e infatti la sua arma segreta, quella che lo aiuta a togliersi d’impaccio, sta in un istintivo senso del rischio anziché in una particolare propensione alla cultura della razionalità. Anche l’ambientazione storica coopera in questo senso, tanto che larga, se non massima, parte della narrazione non è altro che un affresco realistico delle macerie – materiali, morali, politiche e sociali – dell’impero austroungarico sconfitto: lo scenario perfetto per un eroe che non ha alcuna paura di sporcarsi pur di raggiungere il risultato di giustizia che gli sta a cuore. Il finale, che forse è un po’ troppo compresso (anche se l’effetto sorpresa ne riesce indubbiamente enfatizzato), fa presagire che Emmerich promette di dare battaglia non solo ai criminali, di guerra o comuni che siano, ma ad un intero contesto di degrado, frammentazione e abbrutimento, che costituisce il reale bersaglio dell’atto d’accusa che l’Autrice ha messo in scena, e che rappresenta il pericolo concreto verso il quale, per ragioni diverse, tendiamo sempre a scivolare, anche alle soglie del 2019.

Recensioni (di Alessandro Moscè; di Ranieri Polese)

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Ferencs Ernesto Balla è un ufficiale dell’esercito austriaco, di madre trentina e padre ungherese. Ha studiato letteratura balcanica a Vienna ed è un vero poliglotta; a casa Wittgenstein è sempre ospite gradito. Ha prestato giuramento per l’Austria felix, multiculturale e multietnica, ma la Grande Guerra sembra essere finita presto per lui: è stato ferito sul fronte russo e ha perso del tutto l’uso di un braccio. Poteva andargli decisamente peggio, perché il colpo era diretto al cuore, e soltanto il cappuccio della sua fedele penna Elmo lo ha salvato, deviando il colpo sul gomito. Eppure il suo destino deve ancora realizzarsi proprio nel bel mezzo del conflitto, perché, per le sue spiccate doti linguistiche, viene reclutato dal servizio segreto dell’Impero per infiltrarsi nell’alto comando italiano, spacciandosi per il tenente Vittorio Bottini, morto poco dopo la cattura sull’Ortigara. Comincia così, per Balla, una nuova vita di spia, dietro le linee nemiche, dove diventa presto uno dei collaboratori più fedeli del servizio informazioni italiano, del quale segue tutte le trame, specialmente dopo la disfatta di Caporetto. L’azione si svolge nelle immediate retrovie del fronte, alle porte dell’Altopiano di Asiago, tra Breganze e Marostica: Ferencs/Vittorio si integra perfettamente nella compagine del nemico, tanto da legarsi ad altri commilitoni, per i quali comincia a provare anche un po’ di ammirazione; e ha anche il tempo di innamorarsi, prima di lanciarsi nelle fasi più concitate della cruciale battaglia del Solstizio, per provare a mutarne le sorti già segnate.

Per chi mastichi un po’ di tedesco, e conosca il mondo piccolo di Bassano del Grappa, lo pseudonimo dietro il quale si cela l’Autore è fin troppo facile da decifrare, tanto più che il romanzo sembra il fresco diversivo di chi pratica assai bene la storia, le strategie, i retroscena e i teatri del primo conflitto mondiale, specialmente quelli della Pedemontana veneta. Tuttavia il libro merita attenzione anche al di là dell’inevitabile gossip su chi può averlo scritto. Le vicende di Balla/Bottini ci mettono, infatti, in comunicazione con alcuni dei più suggestivi punti cardinali di un territorio che ancora oggi porta i segni di tante battaglie. Ci invitano a visitarlo, a riscoprirlo con una rinnovata perizia, e anche a conoscerne, e frequentarne, alcune gloriose curiosità, come la fabbrica delle penne Montegrappa (ché quella di Balla/Bottini oggi si chiamerebbe così) o l’intramontabile Osteria Madonnetta (di Marostica, luogo sacro dell’eroico editore e dei suoi tanti amici) o lo stupefacente Archivio Storico Dal Molin (“pozzo senza fondo” per tanti giovani e vecchi studiosi e appassionati) o, ancora, il prezioso Museo Hemingway e della Grande Guerra (per essere scortati, anche con Dos Passos, sui campi di battaglia italiani, sotto la guida dell’imperdibile – e forse oggi introvabile – volume di Giovanni Cecchin). La scrittura di Paul Schachtbrunnen non è quella di Anne Perry, e l’impresa editoriale è veramente opera di un ardito, ma i lettori ne riusciranno compensati da alcune ore di autentico svago. Conclusivamente, vale per tutti l’invito che lo stesso tenente Balla avrebbe formulato nel suo idioma ufficiale: viel Spaß beim Lesen!

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È da tempo che Adelphi sta ripubblicando le opere di Thomas Bernhard. Ma ogni nuova release, piccola o grande, è sempre un evento. L’impronta potente, tagliente e dissacrante del grande scrittore e drammaturgo austriaco vi è sempre riconoscibile, e naturalmente ciò consente al lettore di trarre grandi soddisfazioni. Tanto più in questa serie di quattro racconti (Goethe muore, Montaigne, Incontro, Andata a fuoco), che compendiano in forma di pillole di autentica letteratura buona parte della singolarissima esperienza bernhardiana e quindi dello stile, del tono e dei temi che la contraddistinguono.

Nel primo racconto – che nell’edizione originale palesa un’intenzione quasi sarcastica già nel suo titolo: uno “strascicato” Goethe schtirbt, anziché Goethe stirbt – Bernhard ridicolizza il grande poeta tedesco o, più precisamente, l’immagine dorata e stereotipata che di esso ha costruito la cultura popolare di lingua germanica. E così, in una dimensione temporale del tutto fantastica, lo ritrae morente, nell’atto di mobilitare e condizionare tutti i suoi più stretti adepti, e di esprimere loro un capriccio del tutto paradossale, quello di conoscere Wittgenstein. L’epilogo è tragicomico e distruttivo, poiché non solo il desiderio impossibile non potrà essere esaudito, ma si scopre che anche le ultime parole di Goethe non sono state quelle che la tradizione ha celebrato: il mito cede decisamente il passo alla coscienza di un’indifferenza davvero tombale. O di una condanna implacabile, che è quella che Bernhard non riserva soltanto al suo Paese ed alla volgarità che ne avrebbe travolto ogni autentica manifestazione intellettuale ed umana, fino all’incendio dell’esperienza nazista (così è, ad esempio, nell’ultimo racconto). Nel terzo e nel quarto racconto, infatti, il mirino di Bernhard è rivolto, come in altri casi, nei confronti dei genitori. Per i giovani protagonisti dei due brani l’unica speranza o è l’isolamento salutare nella serena meditazione filosofica della torre, in compagnia dei pensieri di Montaigne, o è un gesto, letteralmente bruciante, di liberazione da tutto ciò che può simbolicamente rappresentare l’ipocrisia di un’infanzia piccolo-borghese, “cresciuta” tra vuote ambizioni e una crudele disaffezione per tutto ciò che può essere un vero rapporto d’amore.

È sempre estremo Bernhard, già nell’insistenza ossessiva del suo periodare, in un apparente e continuo parlare solo verso se stesso, come se tutti i suoi personaggi fossero voci di un disorientante teatro delle marionette, mosse dalla stessa mano in un meccanismo del tutto autoreferenziale. Ma la follia che sembra animare quei personaggi, il più delle volte, non è la follia di determinati tipi umani o del loro stesso Autore; è un esercizio di razionalità assoluta, di sconvolgente lucidità autoanalitica, di un’emotività pensante che sembra follia soltanto perché, in verità, è la realtà che la circonda ad esserlo propriamente e a ribaltare su pochi, sfortunati e soli, l’immagine della degenerazione dei molti. È così che la voce di Bernhard si fa critica feroce nei confronti della società, delle finzioni che ne perpetuano gli idoli e della sua strutturale incapacità di elevarsi al di sopra di se stessa e, come tale, di comprendere realmente la ricchezza interiore di ciascun individuo e il tesoro di autenticità e di consapevolezza che la vera cultura può trasmettere. Questa voce, forse, è destinata ad essere sempre pertinente e ad infonderci un pessimismo cosciente e terribilmente convincente; eppure proprio questa voce è ciò che di più indispensabile si possa immaginare per preservare in ciascuno di noi una sia pur minima luce di confortante ragione

“Goethe schtirbt”: in lingua originale, in italiano, in inglese

Recensioni: di Goffredo Fofi, Luigi Forti, Riccardo De Gennaro, Paolo Mauri, Massimiliano Parente, Giorgio Montefoschi

Su Bernhard: Bernhardiana, Thomas Bernhard Gesellschaft, Thomas Bernhard in English

Un ricordo di Thomas Bernhard (di Daniele Benati)

Un’opera teatrale di Bernhard: Minetti. Ritratto di un artista da vecchio (produzione del Teatro stabile di Bolzano, 1983-1984)

Una classifica tutta personale: che cosa (e quanto) mi piace di Bernhard?

  1. Il soccombente (Adelphi)
  2. Correzione (Einaudi)
  3. Perturbamento (Adelphi)
  4. Antichi maestri (Adelphi)
  5. Gelo (Einaudi)
  6. Cemento (SE)
  7. Il nipote di Wittgenstein (Adelphi)
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Su questo racconto si devono subito chiarire due cose: 1) conoscere Joseph Roth soltanto per La marcia di Radetzky, per La cripta dei cappuccini o per Giobbe è un delitto, perché sono senza dubbio le novelle, i pezzi più brevi e apparentemente più facili, a confermare l’Autore austriaco come un vero maestro; 2) l’occasione per apprezzare questa singolare bravura è sempre buona, nel senso che anche le estemporanee iniziative editoriali promosse dai quotidiani possono condurci a riscoperte meravigliose e, con ciò, a qualche prelibatase e, con ciò, a qualche gustosa “degustazione” letteraria. Infatti Il capostazione Fallmerayer (1933), già comparso nelle raccolte più eleganti di Adelphi e di Passigli, non perde certo il suo fascino nella leggerissima edizione stampata per Il Sole 24 Ore nella serie I libri della domenica (edizione nella quale viene accostato, come nelle precedenti occasioni, anche ad un altro capolavoro, il racconto intitolato Lo specchio cieco, del 1925). È un concentrato di perfezione e di equilibrio, ma anche di significati molteplici e nascosti.

In una prosa essenziale, ma soppesata con attenzione certosina, Roth ci descrive, al principio, la vita ordinaria e monotona di un capostazione austriaco, Adam Fallmerayer. Per lui si tratta di giornate sempre uguali, passate a compiere sempre le stesse azioni, in un’atmosfera senza accenti. Anche la moglie e le due figlie gli sembrano quasi toccate in sorte. La felicità di questa famiglia non è “quella dei ricchi”, non è quella del “Sud”, di quel luogo meraviglioso verso il quale si dirigono i treni velocissimi che in quella stazione non si fermano mai, di quei posti nei quali anche loro hanno la possibilità, ma solo per una breve vacanza premio, di soggiornare e di capire che, in verità, i “ricchi” portano il “Sud” in qualsiasi luogo si trovino. Poi, tutto d’un tratto, in questo clima malinconico irrompe l’evento, e qui comincia la seconda parte del racconto. Perché proprio uno di quei velocissimi treni, diretti al Sud, deraglia rovinosamente, poco distante dalla stazione di Fallmerayer. Questi si precipita, quasi timoroso, per offrire il suo aiuto, ma rimane bloccato ed incapace di reagire. Tuttavia, sempre all’improvviso, deraglia egli stesso: viene letteralmente colpito, tra le persone che viaggiavano sul treno e che sono state portate in salvo, da una donna, una contessa russa, che cerca di assistere e di cui finisce segretamente per innamorarsi. Dopo qualche giorno, passato lo shock dell’incidente, la donna riparte per raggiungere il marito, ma nella casa di Fallmerayer le sue tracce sono ormai indelebili e le cartoline di ringraziamento che giungono alla stazione non fanno che renderle ancor più visibili. Passa così del tempo, l’Impero austro-ungarico entra in guerra, è il primo conflitto mondiale e Fallmerayer viene destinato al fronte orientale, in Russia: il deragliamento interiore non può che prendere definitivamente la strada cui era destinato sin dal principio. Il capostazione coglie ogni opportunità disponibile per studiare il russo e per ritrovare la nobildonna Anja Waleska, con la quale fugge fino a Monte Carlo, in un susseguirsi di piccole e grandi vicende, descritte da Roth con il senso di un’estrema naturalezza, sino ad un epilogo parimenti inevitabile.

Al termine, preso dallo stupore per la sensazione di felice compiutezza che la novella mi ha lasciato, mi accorgo che le interpretazioni e le letture “colte” di questo ineguagliabile pezzo della narrativa mitteleuropea sono moltissime. Alcuni, stimolati dal nome del protagonista (Adam), vi scorgono un’allegoria di stampo biblico, quasi che il “deragliamento” di Fallmerayer corrisponda alla “caduta” del peccato originale. Altri, sulle suggestioni del ritrovamento di un’ulteriore ed inedita versione del racconto tra le carte di Marlene Dietrich, favoleggiano sul finale alternativo che in essa è contemplato e sul fatto che, forse, Roth, pur non rinunciando all’esito drammatico, avrebbe dissipato ogni dubbio sull’esistenza di sentimenti autentici. Altri ancora, poi, analizzano i minimi dettagli della novella, cercando di trarne conferme sull’interpretazione complessiva del pensiero socio-politico dello scrittore, ad esempio immaginando che lo studio della lingua russa da parte di Fallmerayer sia un gesto di simbolica affermazione dell’austro-slavismo di cui Roth si era fatto portavoce. D’altra parte, e sempre restando al filone socio-politico, si potrebbe anche pensare che, come in una sorta di fosca ma acuta premonizione, il mediocre capostazione di provincia altri non sia che la “figura” di una piccola borghesia ineluttabilmente travolta dagli sconvolgimenti del Secolo e dal sogno “impossibile” e “irrazionale” di trovare sorti nuove e “più grandi” di quelle realisticamente consegnatele dalla Storia. Non manca, tra l’altro, chi evidenzia il sottile e continuo gioco di rimandi tra l’opera di Roth e altre grandi opere della letteratura continentale, come se si potesse constatare, anche in questo piccolo gioiello, la ricorrenza di immagini e di stilemi di per sé significanti: Fallermayer si innamora di una nobildonna russa, così come il giovane Castorp, ne La montagna incantata di Thomas Mann, si invaghisce di madame Chauchat, consorte di un funzionario russo.

A mio giudizio, tuttavia, il fascino del racconto non risiede unicamente in questo suo singolare spessore, bensì in ciò che rende possibile una tale fecondità, e quindi nell’aura che l’Autore ha costruito con voluta sapienza. È come un’onnipresente enigmaticità, unita, però, ad un senso di scivolamento complessivo che, allo stesso modo, pervade ogni pagina. A ben vedere, quest’aura è quella di un disagio palpabile, che si avverte dall’inizio alla fine, quando si rivela assumendo i contorni definitivi di una sconfitta, dell’unica certezza effettivamente disponibile. Ebbene, la magia è tutta qui: comprendere che la grande letteratura ci arricchisce e ci sazia comunque, anche quando vuole decifrare il fato individuale e collettivo, e quindi anche quando può scuoterci e intimorirci.

Una suggestiva puntata di Pickwick (da Rai.tv), sulle orme di questo racconto, ma non solo…

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