Prima avvertenza: è meglio se si riesce ad andarci in auto. È vero che per chi arriva in treno c’è l’apposita fermata in esatta corrispondenza del piccolo omonimo comune, raggiungibile senza disagi sulla tratta Milano-Pavia. Però, anche se si viene sbalzati dalla ferrovia in sorprendente prossimità del lunghissimo muro di cinta del monastero, possono presentarsi alcune difficoltà, specialmente per chi si muove con trolley, borse o valigie varie. C’è un percorso pedonale, teoricamente assai suggestivo, proprio lungo il muro; ma il terreno fangoso e le frequentazioni faunistiche del vicino canale potrebbero non costituire la migliore delle accoglienze. // Seconda avvertenza: la Certosa è ben connessa a tutte le vie di comunicazione. Eppure, salva la locale stazione dei Carabinieri, praticamente inglobata nell’ingresso, gli immediati dintorni del pur enorme complesso architettonico paiono colpiti dalla più classica delle desolazioni con cui sono costretti a convivere moltissimi dei patri monumenti. Escluderei da questo insopprimibile senso di disfacimento la stretta contiguità del monastero con il più famoso e storico stabilimento della Galbani (eh si, proprio quello del Bel Paese…). È un raffronto che suscita più di qualche rilievo, per nulla negativo (da una fabrica all’altra…).     

La visita: traguardati dal binario, i pinnacoli della Certosa spuntano in una leggerissima foschia. Ma non ci si sente nel XIV Secolo, anche se la posa della prima pietra risale all’agosto del 1396. I silos dell’industria del formaggio incombono e l’idea, oggi, è che, dietro l’alta parete di mattoni che protegge gli antichi poderi dei monaci, si stia innalzando un’eccentrica e avveniristica Metropolis padana. All’entrata del cortile antistante alla chiesa, Quattrocento, Cinquecento e Seicento si lasciano finalmente raggiungere, come in successione, anche se in rigoroso ordine inverso (prima il Seicento, per gli edifici che fanno da contorno al cortile, poi il Cinquecento, per il cortile stesso, quindi il Quattrocento per l’imponente struttura della chiesa). La facciata è policroma, anche se domina il bianco; è maestosa e connotata da un’unicità che è complice con quella dello sguardo inevitabilmente stupito di ogni singolo visitatore. Si comprende facilmente la stratificazione di stili, idee e lavorazioni, frutto di un cantiere secolare. Le immagini e le storie scolpite impongono attenzione, specialmente attorno al portale. È una fioritura di decorazioni, affiancate l’una all’altra.

Per entrare si passa dalla chiesa (S. Maria delle Grazie: il nome di tutto il complesso è Gratiarum Chartusia, da cui il GRA-CAR che si trova impresso in più luoghi e in più elementi della costruzione). Si deve attendere il proprio turno. La visita dura circa mezz’ora e la guida – che altri non è se non un monaco cistercense di origine brasiliana – finisce il proprio giro e torna a prendere il gruppo, che nel frattempo si è spontaneamente accalcato davanti al cancello che separa il transetto, il coro e l’altare dalla navata centrale. Nell’attesa il visitatore non trova alcun genere di supporto esplicativo. Il vuoto non disturba, fa rima con l’imponenza e l’incidenza dei volumi tardo-gotici, davvero sorprendenti e paralizzanti. E invita alla scoperta disorientante degli affreschi e delle vetrate. Ma i poli d’attrazione sono effettivamente nel transetto: il monumento funerario di Ludovico il Moro e Beatrice d’Este; il sepolcro di Gian Galeazzo Visconti; il trittico in avorio. Da subito si capisce che l’illustrazione guidata corrisponde ad un testo recitato, imparato a memoria, concepito per essere ripetuto meccanicamente e, forse, di per sé poco interessante. È quasi una preghiera, un perdurante atto di riconoscenza agli Sforza e ai Visconti (finanziatori dell’opera), oltre che a Dio: nel centro del magnifico coro il monaco ci invita in modo disarmante alla recita collettiva del Padre Nostro. Capisco, tuttavia, che la visita di natura intimamente devozionale ha una sua precisa finalità e che, peraltro, colpisce veramente il piccolo pubblico dei turisti. E intuisco, allo stesso modo, che, se al posto del simpatico monaco brasiliano ci fosse un preparatissimo storico dell’arte, la comitiva non sarebbe altrettanto sopraffatta dalla dimensione della cosa. Il punto è che il rapporto con un bene culturale ha anche bisogno di ispirazione e di riverenza, e non solo se si tratta di un monumento di interesse religioso. La lezione ha una portata generale, per nulla scontata: nel patrimonio artistico c’è da comprendere e da approfondire, ma c’è anche da restarne avvolti. I due profili si sorreggono a vicenda.  

Il vero trionfo è nei due chiostri. Il primo, quello piccolo, che offre la vista più suggestiva alla cupola che sovrasta la chiesa e ai contrafforti che la sorreggono; e il secondo, quello grande, che fino al 1947 ospitava le celle dei certosini e che è il più autentico regno del silenzio. Del primo mi colpisce la raffinatezza del cotto lombardo, articolato in molteplici forme scolpite su tutti gli archi, oltre che sullo splendido fontanile laterale, cui i monaci si recavano per lavarsi. Il secondo è immerso nel pallido sole di dicembre, con un placido gatto che ne sorbisce il tepore vicino ad una della innumerevoli colonne: è come la piazza verde di una città ideale, uno spazio assoluto sul quale si affacciano, ad intervalli regolari, le casupole seriali dei monaci. In un angolo si può sbirciare sull’enorme distesa di campi recintati in dotazione al convento. La guida ripete compìta le regole e l’organizzazione della vita di ogni certosa (v., ad esempio, la semplice presentazione dei certosini di Serra San Bruno); poi si viene fatti entrare in una delle celle, raccolte e complete, con camino, studiolo e piccolo orto-giardino. 

I pensieri che mi vengono subito in mente sono apparentemente un po’ dissociati: devo rileggere Altissima povertà di Agamben; ho una voglia improvvisa della mia consueta quiete domestica. Così produco una riflessione forse troppo prosaica, ma tanto personale quanto sincera: in fondo, quando sono a casa, mi riposo e mi ricostruisco, e ciò non solo perché trovo un momento di pausa, ma anche perché posso informare lo spazio che mi circonda alle mie più spontanee e semplici esigenze, in senso alternativo a quella che è la vita che normalmente conduco all’esterno. Per questa ragione apprendo che la casa è, nella mia esperienza, lo specchio di un quotidiano e laico bisogno certosino. La visita termina nello shop della struttura, gestito dai cistercensi, attuali custodi della Certosa (ma lo sono stati anche in altre epoche, come è accaduto anche per i carmelitani). Ci scappa l’acquisto di una tisana confezionata sul posto e si esce nuovamente nel cortile di fronte alla facciata della chiesa, evitando (si sta facendo tardi…) l’attigua gipsoteca, che è gestita dalla locale Soprintendenza per i beni architettonici e il paesaggio (e che si trova nell’antica Foresteria, poi Palazzo Ducale, residenza estiva dei Visconti). La nebbia comincia ad addensarsi; da queste parti è un copione pressoché fisso e molto suggestivo. Si riparte con l’immagine della Madonna del Garofano, ritratta nella Sala del Lavabo: un piccolo “santino” a mo’ di cartolina, per ricordare la leggerezza di questa visita imperdibile.

Il sito della Certosa

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Da oggi il blog ospita una nuova “sezione”: La Costituzione… in una pagina. Si tratta dell’avvio di un Commento alla Costituzione italiana, da completare progressivamente (e senza alcuna scadenza…). Per il momento è disponibile una rapida introduzione alla lettura dell’art. 1.

Come recita l’Avvertenza posta in calce al quadro generale del Commento, l’iniziativa non ha alcuna pretesa: non ha ambizioni di completezza scientifica; non vuole sostituirsi agli ottimi, tradizionali ed autorevoli commentari già esistenti; né vuole immaginare o proporre itinerari interpretativi originali o percorsi didattici innovativi. Ha tuttavia due scopi.        

Il primo è di carattere semplicemente informativo e consiste nella disseminazione di un livello minimo di cultura costituzionale e, con essa, di sensibilità giuridica. In proposito, pur non potendosi affermare che nella Costituzione si trova tutto, si può senz’altro azzardare che la sua lettura e il suo studio rappresentano una formidabile palestra, per il giurista come per il comune cittadino. Si tratta, dunque, di un invito alla scoperta e alla prosecuzione, anche su altri terreni, di un’esperienza sempre intrigante, oltre che utile.         

Il secondo obiettivo di questo Commento si risolve nella volontà di creare un canale aperto di dialogo con tutti coloro che vogliano provare ad interagire sui temi di cui la Costituzione si occupa e sulle possibilità applicative di questa importantissima fonte. Non sono in grado, in verità, di sostenere un’interlocuzione personale, rapida e costante con chiunque ne sia interessato. Nonostante ciò, chi ne avrà tempo e voglia potrà segnalare le proprie osservazioni, il proprio parere o le proprie richieste di approfondimento ulteriore al seguente indirizzo: fulvio.cortese@unitn.it. Nei limiti del possibile, sarò lieto di rispondere e, soprattutto, di trarre spunto proficuo per un miglioramento progressivo del Commento.

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Grazie alla segnalazione di un vulcanico collega, approdo alla newsletter settimanale (Il Rosso e il Nero) che Alessandro Fugnoli pubblica sulla home page di Kairos, società che si occupa da anni di gestione del risparmio e che, in tale settore, svolge senz’altro un ruolo di leader ormai riconosciuto. La scoperta è piacevolmente sorprendente, come lo potrebbe essere quella di un cocktail frizzante e corroborante, o di un canale radiofonico cui sintonizzarsi per godere in ogni momento di rapide ma continue improvvisazioni jazzistiche.

Fugnoli, infatti, somministra pillole di economia e di analisi strategica mediante brillanti ed incisive incursioni nella filosofia, nella storia, nell’arte e nella letteratura: e così rende affascinante ed umano ciò che talvolta tendiamo a percepire erroneamente soltanto in modo asettico, freddo e distante. Soprattutto, ci aiuta a ricordare – a suo modo seguendo le orme di Carlo M. Cipolla – che in economia i modelli astratti non sono sempre vincenti e che un valore determinante lo può giocare la corretta valutazione delle esperienze, presenti e soprattutto passate, e un’attenta e smaliziata previsione dei comportamenti individuali e collettivi.

Le domande che nella newsletter potrebbero trovare una risposta sono tantissime. Ad esempio: è possibile comprendere il senso e i limiti del regime europeo di volontaria austerità economica muovendo da Savonarola e Robespierre? Perché magnati russi e cinesi investono in divise che rendono meno di quelle nazionali? Che cosa c’entra il Katéchon con l’euro? Perché per orientarsi nel complesso mondo degli investimenti può essere utile leggere Dino Buzzati? Questi sono soltanto alcuni degli innumerevoli percorsi che può suggerire la lettura de Il Rosso e il Nero e dei suoi densi archivi, che sono raccolti e resi disponibili sin dai numeri del 2010, e che, data la loro freschezza espositiva, paiono indenni dal naturale rischio di scadenza cui possono incorrere i temi e gli eventi fatti oggetto di attenzione. Che altro dire… È davvero un appuntamento da non perdere!

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Sosta pre-pasquale in autogrill, sulla Orte-Ravenna; clima malinconico e quasi autunnale; solito sguardo panoramico, un po’ curioso e un po’ “sbadigliante”, in attesa di un caffè che sarà, come sempre, troppo caldo. Ma l’occhio, bontà sua, cade sull’espositore giusto… tanti piccoli libri della Newton Compton, a 0,99 €, in una coloratissima combinazione di veri classici (Shakespeare, Poe, Sun Tzu, Freud, Fitzgerald…) e di brevi e ammiccanti prove “di cassetta” (Lisa Jane Smith e la saga dei vampiri, Andrea Frediani e un’avventura ambientata nella Roma antica, Marcello Simoni e il suo ultimo ed agile thriller storico…). È la svolta del viaggio, che dalla strada, bagnata, un po’ dissestata e “faticosa”, passa fortunatamente alla memoria, ben più accomodante e rassicurante…

È un dato di fatto; è tutto vero. La nuova uscita di Newton Compton (LivƎ) rilancia la mitica collana “100 pagine 1000 lire”, sia pur sotto le spoglie delle conversioni cui l’unione monetaria ci ha abituato da tempo; non ci potevo credere… Era stato, molto tempo fa, il primo incontro libero e felice con i grandi della letteratura. Era stato l’inizio di un’esperienza che sarebbe durata a lungo e che ancora resiste pervicacemente, agevolata, in origine, proprio dal battesimo del Tascabile Economico per eccellenza. Il primo esemplare mi era “piovuto” addosso quasi per caso, nel tardo pomeriggio di una domenica, da un espositore di una libreria inaspettatamente aperta: era l’edizione compatta, in carta riciclata, ma con il testo a fronte, per di più autografo, delle Illuminazioni di Arthur Rimbaud. Da quel momento, tutto è stato più semplice, “come una frase musicale”; così scrive Rimbaud in un verso di Guerra, una poesia che, sempre, e proprio da quel momento, è rimasta scolpita nella mia mente.

Per questo, per quella fedeltà assoluta che occorre conservare ad ogni costo per alcune delle tante e svariate cose dell’adolescenza, ho deciso di afferrare al volo I sotterranei della cattedrale, certo di portare con me un talismano sicuro. È chiaro che questa storia conta poco: è un leggerissimo volume da ombrellone (Il mercante di libri maledetti, viceversa, è un po’ più convincente, e non a caso l’anno scorso ha vinto il Premio Bancarella; anche se dobbiamo riconoscere a Marcello Simoni che la figura del giovane protagonista, Vitale Federici, dottorando di filosofia nella Urbino di fine Settecento, che indaga “sherlockianamente” sulla misteriosa morte della sua guida accademica, l’erudito professor Lamberti, può piacere molto e promette di dare qualche soddisfazione ulteriore in future peripezie…). La storia impedibile è un’altra, è nell’oggetto: è la minuscola oasi che puoi trovare dove meno te l’aspetti e che mantiene il suo innegabile potere catartico, quella consueta forza antidotica che anche i vecchi “100 pagine 1000 lire” possedevano e che potrà ancora dare a qualcuno l’occasione per importanti e durature trasformazioni. Nessuna promozione, dunque; ma non si può negare che, effettivamente, anche le operazioni editoriali più semplici ed apparentemente “volgari” nascondono insospettabili virtù.

Il successo di “100 pagine mille lire”

L’indice della vecchia Collana

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Molto probabilmente non esiste un Paese nel quale si parli di scuola e di riforma della scuola nel modo con il quale lo si fa usualmente in Italia. La scuola italiana è costantemente al centro dell’attenzione: per il suo posizionamento, di solito non “egregio”, nelle più diverse classifiche internazionali; per lo status così vario e incerto, o meglio, prevalentemente “precario” e de-qualificato, del personale docente; per gli improbabili e maldestri vaticinii di sempre nuove e mirabili metamorfosi che ogni Ministro attribuisce sempre alle imminenti misure che si propone di adottare o di veicolare in Parlamento; per un complesso di straniante inferiorità, nei confronti di altre fette della succosa “polpa” nazionale, ma anche in paragone a modelli pretesamente più efficienti, eppure in loco mai sperimentati; per i periodici episodi di cronaca che nelle rappresentazioni di molta stampa finiscono per additare le nostre aule a laboratorio di retroguardia, di staticità, di inaccettabili bullismi di vario genere.

Per lo più, quindi, si tratta di una storia infinita, dai toni ormai scontati e logoranti. E capita anche di leggere spesso (come è possibile fare anche in questo articolo, di qualche giorno fa) che la missione di una scuola così in difficoltà sarebbe tanto più frustrata da una desolante e irrimediabile mancanza di reattività dei suoi stessi alunni: che leggono poco e male; che non si interessano; che sono “aggrediti” da sollecitazioni – distrazioni – molteplici e continue; che, semplicemente, non sono neanche capaci di accedere al grande patrimonio della nostra tradizione letteraria, non tanto per poterlo capire appieno, quanto per poterlo, almeno e semplicemente, leggere e conoscere.

Allora è spontaneo, nei più, ricordare che, viceversa, le cosiddette “eccellenze” sarebbero prevalentemente all’estero e che occorrerebbe semplicemente prendere esempio da quelle per raggiungere traguardi altrimenti inaccessibili, ma anche per tentare, solamente, di salvare il salvabile. Si discute, così, dell’adeguamento del sistema italiano a standard globali ormai irrefutabili. Si ripete che occorre guardare in avanti. Si vede in ogni richiamo ai depositi culturali della Penisola il rinvio ad un fondamento che, se ancora valido, si può difendere soltanto con mezzi più moderni, e che non può certo fornire alibi per atteggiamenti di resistenza o di ri-proposizione di percorsi e di studi divenuti ormai obsoleti.

Ebbene, di fronte a tutto questo, viene da chiedersi se si debba fare l’esatto contrario, ossia, più correttamente, se, per raggiungere quei risultati, ci si debba guardare innanzitutto indietro, avendo in mente un’esperienza scolastica imperdibile, come fu quella, pre-unitaria e napoletana, del marchese Basilio Puoti (1782-1847: v. il ritratto a sinistra), alla cui fonte si sono abbeverati, tra i tanti, Francesco De Sanctis e Luigi Settembrini. Certo, molti potranno obiettare molto: che era una scuola super-elitaria; che il materiale umano era diverso; che era una scuola privata per studenti assai motivati e ricchi, non la scuola di massa; che il suo curricolo è sostanzialmente improponibile, in quanto profondamente sbilanciato in severissimi studi umanistici; che in quel tempo non esistevano affollatissime classi multi-etniche con cui confrontarsi etc. Tutto questo è vero. Però è parimenti indubitabile che ciò che racconta De Sanctis è straordinariamente accattivante e, a ben vedere, non è affatto intraducibile; tanto che l’illustre letterato, che era già stato, e lo sarebbe stato ancora, anche Ministro della Pubblica Istruzione, poneva di fatto la scuola del Puoti proprio come esempio con cui competere rispetto alle altre esperienze di matrice europea, in primis quelle anglosassoni.

Il De Sanctis vi allude in più occasioni, e così anche sulle pagine di Nuova antologia (vol. 9, 1868, pp. 509 ss.), trovando un pretesto nella lettura di volumi che trattavano di tutt’altre questioni. L’attenzione per il Puoti, in questo pezzo, è ampia, e non è scevra da venature ironiche e critiche (oltre che da una meditata ribellione nei confronti del Maestro): ad essere ironica e critica, per la verità, è l’intera intonazione del saggio (intitolato L’ultimo de’ puristi), poiché la sottolineatura di un certo dogmatismo e di un certo passatismo – quelli di chi intende seguire le orme del Puoti fissandone l’insegnamento in un qualcosa di infallibile – servono all’autore per valutare la ponderosa opera di cui vorrebbe discutere e di cui, in fondo, si prende gioco apertamente. La cosa rilevante, però, è che De Sanctis, parlando del Puoti, lancia un messaggio importantissimo: ricorda che le nuove generazioni, per poter sviluppare le loro forze, hanno “bisogno di trovare innanzi a sè un passato da combattere, un avvenire da conquistare”; e allora “il passato si chiamava il seminario, l’istruzione provinciale; il progresso si chiamava il purismo, la scuola di Basilio Puoti”.

Questa è la prospettiva giusta, quella che consente di capire come un modello di scuola storicamente superato e inattuabile possa diventare un fattore propulsivo anche nel contesto attuale. Perché quella scuola, infatti, era di per sé inattuale, come dev’essere sempre ogni scuola; essa era già radicalmente in avanti. Perché gli alunni, in effetti, vi erano chiamati alla discussione e al confronto; perché vi si imparava che “il peccato non era il nascer patrizio o il divenir prete; il peccato era l’ignoranza”; perché le lezioni non erano “o spiegazioni o teorie”, ma “esercitazioni”; perché gli alunni “veterani” si prendevano cura dei meno esperti e diventavano esempi da imitare; perché, in definitiva, “i principali attori erano i giovani”, e “i poltroni poco ci duravano”; perché la creazione di una specie di “disciplina naturale” dei discenti passava per il confronto rigorosissimo con riferimenti che, in quanto antichi, erano dichiaratamente in polemica con il presente e ne suscitavano, così, una considerazione critica e matura; perché “alla coltura letteraria tenea dietro un vero progresso ne’ diversi rami dello scibile” (sicché era anche scuola moderna e avanzata, che si apriva ai grandi pensatori e alle grandi scoperte del tempo; in un’altra sede De Sanctis racconta della visita fatta alla scuola da Leopardi in persona, su invito del Puoti).

È possibile, dunque, che queste intenzioni, queste attitudini, questi metodi possano essere riprodotti anche oggi? La risposta non può che essere affermativa e, cosa che fa ancor più piacere, potenzialmente foriera di grandi soddisfazioni: poiché non è vero che coltivare i saperi umanistici non serve e non può essere accostato alla frequentazione, in questo modo maggiormente proficua, delle scienze dure; poiché i ragazzi possono essere al centro del processo formativo che li riguarda, e ciò senza che si rinunci ad essere correttamente esigenti; poiché si può essere puristi anche oggi, a patto che questo purismo non sia fine a se stesso e si promuova, viceversa, a metodo rivoluzionario ed alternativo rispetto a ciò che viene già offerto fuori dalla scuola; poiché, in conclusione, è un modello tutto italiano, da riscoprire e, davvero, da non perdere più.

Francesco De Sanctis e la scuola del Risorgimento (di Marco Grimaldi)

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Il testo in lingua originale

Una traduzione italiana

È un vero classico della letteratura spagnola, che ho scoperto, ahimè, solo da poche settimane, grazie ai suggerimenti di un collega e amico di Madrid. Prima di questo momento, infatti, l’approccio a Miguel de Unamuno (1864-1936) non era stato dei migliori: Nebbia (1914) è un romanzo certamente importante, ma la sua natura sperimentale si fa sentire anche ai giorni nostri e non rappresenta un facile viatico; e poi occorre fare i conti con la fama disorientante che il rettore di Salamanca ha sempre avuto in Italia, strattonato tra opinionisti di ogni colore come occasionale nume tutelare. Ma, come sempre, bisogna fidarsi della sola lettura, quasi fosse un’intrinseca regola di disciplina, perseverandovi e lasciando che sia l’autore ad esprimersi, avendo se del caso la pazienza di attenderne i pezzi migliori. San Manuel Bueno, mártir (1930) appartiene effettivamente a quest’ultima categoria e, come si diceva, si è fatto giustamente attendere.

La storia è semplicissima. Ángela Carballino, devota parrocchiana del paesino di Valverde de Lucerna, rivela alcuni segreti sulla vita di San Manuel Bueno, futuro beato e già parroco di quell’amena località. Amato e rispettato da tutti, don Manuel, che tanto si adoperava per la sua comunità, con vero impegno e con autentico entusiasmo, nascondeva qualcosa di terribile e di indicibile. La giovane Ángela, anima pia e osservante, e suo fratello Lazaro, vero spirito laico e progressista, sono entrati in grande confidenza con il sacerdote e sono riusciti a capirne le ragioni dell’intimo tormento. Don Manuel vive uno stato di costante angoscia, è attanagliato dalla paura di non credere, dalla tentazione del suicidio e dalla volontà, determinatissima, di evitare ai suoi fedeli le dure prove che sono imposte dalla coscienza della tragicità della vita: l’unico antidoto è darsi integralmente agli altri, affinché possano attingere alla consolazione della vita e alla contentezza che la vita e le sue piccole cose possono dare. La sua missione è incrollabile, e riesce a trasmetterla anche a Lazaro, che continua, da laico, quello stesso ministero, fino alla morte.

Sarebbe troppo facile spiegare questa novella discettando di spiritualismo o ricordando il modo con cui lo stesso Unamuno amava definirsi: “un Pascal spagnolo”. Né sarebbe utile assorbire il significato della vicenda narrata all’interno del dibattito sul modernismo o qualificarlo, eventualmente, come formula letteraria della nota affermazione paolina sull’insufficienza della sola fede e sul primato della carità (Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!”: S. Paolo, Prima lettera ai Corinzi, 13, 13). Troppo torto, credo, si farebbe al filosofo iberico; la cui intenzione, viceversa, pare tutta protesa a creare – e a mantenere, come in uno stato di permanente tensione – un sentimento di disarmante ambiguità e a suggerirne, paradossalmente (kierkegaardianamente), un ruolo positivo.

Forse il testamento che questa storia ci lascia anche oggi è che il rifiuto del laicismo progressista – che pure don Manuel compie risolutamente – non comporta una diversione dello sguardo e che la religione non si nutre esclusivamente di disegni complessi e di rivelazioni insondabili: anche per chi è credente, infatti, occorre sempre tenere gli occhi ben fissi sulla realtà, perché è questa, tutta terrena e tutta umana, a definirne ogni possibile esperienza.

Profilo di Miguel de Unamuno

Unamuno fra laicismo e secolarizzazione (un articolo di Carmine Luigi Ferraro)

 

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Il 28 gennaio 1972 si spegneva, a Milano, Dino Buzzati, uno degli intellettuali, dei giornalisti e degli scrittori più notevoli del Novecento italiano. Sono decorsi, proprio oggi, 40 anni. Un tempo lunghissimo, nel quale l’assenza di una figura così particolare e così straordinaria si è senz’altro sentita. Perché, a ben vedere, non ha trovato alcun erede.

Il mio primo approccio a Buzzati è stata la lettura di una favola, La famosa invasione degli orsi in Sicilia (1945), in un’edizione del 1977, trovata a casa e “divorata” durante un “triduo” di consueta influenza stagionale, al secondo anno delle scuole medie. Ne ero rimasto attratto semplicemente per il titolo; poi la lettura mi ha conquistato, ed anche se non riuscivo ancora a comprenderne l’intimo significato, ciò che mi ipnotizzava era un’originalissima sensazione di sospensione, come se mi trovassi di fronte ad una storia che pur non essendo reale, né verosimile, è più autentica di tante altre. Come le storie del bosco, le leggende, le avventure fantastiche; ma anche come le storie che si possono leggere nelle immagini, nei quadri, nelle illustrazioni. E Buzzati è stato, in effetti, grande narratore, ma anche pittore e disegnatore suggestivo (oltre che autore di opere teatrali, di libretti lirici, di saggi…).

Proprio la sospensione, ad ogni modo, è, con tutta probabilità, la vera caratteristica distintiva di Buzzati, che raccontava di sognare alcuni dei suoi racconti e che, a mio giudizio, ha spesso costruito proprio sulla rarefazione il successo di molte delle sue opere, ivi compreso, famosissimo, Il deserto dei Tartari (1940): il tempo sospeso di un’attesa lacerante ed oppressiva ne è, come è noto, un indiscusso protagonista.

Ma ciò che rende Buzzati una figura effettivamente irripetibile è la fiducia estrema che la sua scrittura nutre nei confronti delle cose, specialmente se sono essenziali, nitide, come lo sono i contorni delle sue montagne o le vite degli animali o i sentimenti più forti che l’uomo può esprimere. Quella di Buzzati è una vera lectio naturalis sul valore della dignità, a volte tratteggiata con estrema fantasia, a volte colorata, a volte pensata, a volte tradotta in ritratti di estremo realismo, in tutti i casi osservata, ma anche vissuta, con occhio di poeta. Ed è, questo, un vero messaggio sui significati morali che la poesia, anche quando assume i toni della prosa, riesce ad incarnare.

Buzzati nel Biografico della Treccani

Buzzati in Rai

“Il punto su Buzzati” di Cinzia Mares

L’Associazione internazionale Dino Buzzati

Sulle orme di Dino Buzzati: una passeggiata in loco

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Se per voi il Natale è un classico cartone animato…

Se per voi il Natale è una canzone un po’ ironica

Se per voi il Natale è un momento di riflessione tragicamente fantozziana

Se per voi il Natale è qualcosa da ricordare

Se per voi il Natale è un apologo sul Natale

Se per voi il Natale è come un incubo

Se per voi il Natale è un po’ teatrale

Se per voi il Natale è un’ottima occasione per improvvisarsi antropologi

Se per voi il Natale è un momento buono per il blues

Se per voi il Natale è un bel canto tradizionale…

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Ricordo di aver visto questa fotografia molto tempo fa, sulla prima pagina dell’inserto domenicale del Sole 24 Ore. Non saprei citare il numero esatto e il periodo, ma questo è un dato, tutto sommato, irrilevante. L’unica cosa certa che rammento è la didascalia che era stata abbinata all’immagine: “filosofo al lavoro”. E in effetti l’uomo ritratto al lavandino, intento a pulire le stoviglie di casa, è Paul Feyerabend (1924-1994), uno dei maggiori filosofi della scienza, autore, tra l’altro, di Contro il metodo (1975, ed. it. 1979) e di La scienza in una società libera (1978, ed. it. 1981)

Spesso siamo erroneamente portati a pensare non solo che il lavoro intellettuale non abbia nulla a che fare con la quotidianità della “vita reale”, ma anche che le cose banali che ci circondano e che ci obbligano a confrontarci con semplici operazioni di routine non siano “serie” e costituiscano, anzi, degli impicci per qualsivoglia approfondimento di pensiero. La fotografia qui sopra è imperdibile perché ci ricorda, innanzitutto, che questa prospettiva è decisamente errata.

Ma la fotografia è imperdibile perché ci dice anche qualcosa di più, giovandosi, a proposito, con Feyerabend, di uno dei testimonial più credibili di questo valore aggiunto: non è forse vero che le idee migliori ci arrivano spesso in modo laterale od obliquo? Non è forse vero, cioè, che la Serendipity esiste e che non è affatto sbagliato creare o assecondare le condizioni affinché essa possa esprimersi al meglio? Probabilmente, ricordarsi, ogni tanto, di essere uomini necessariamente alla presa con incombenze non così “nobili” può fornirci l’occasione giusta, può darci, in altre parole, il contesto adeguato per la generazione di nuove e felici intuizioni.

Giulio Giorello e la Serendipità: una conferenza

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The Cat Concerto (1947)

È un classico cartoon, prodotto da Fred Quimby, nato, guarda caso, lo stesso giorno in cui è morto Franz Liszt (31 luglio 1886).

L’omaggio a questo grandissimo compositore è sempre doveroso, tanto più quest’anno, in cui cade il bicentenario della nascita (22 ottobre 1811; v. i festeggiamenti che sono organizzati nel suo paese natale di Raiding, in Austria, così come quelli che gli sono tributati in Ungheria, la tanto amata terra d’origine).

Il pezzo che il gatto Tom cerca di eseguire, disturbato in continuazione dal topolino Jerry, è la seconda (in Do diesis minore) delle 19 celeberrime Rapsodie ungheresi, scritte, complessivamente, tra il 1846 e il 1885.

C’è, peraltro, un precedente, molto vicino nel tempo e allo stesso modo rigorosamente imperdibile: Rhapsody Rabbit (1946), con il divertentissimo Bugs Bunny, che è (anche) “tormentato” da un topolino dispettoso e che si esibisce negli stessi gesti che saranno poi di Tom. Ma Liszt è stato sempre amato dai cartoons: anche Topolino si era già esibito nello storico e splendido episodio The Opry House (1929); e così farà anche Woody Woodpecker in Convict Concerto (1954). Che dire inoltre di Rhapsody in Rivets (1941)?

Il semplice piacere che queste brevissime animazioni sanno dare è un’ottima scusa, quindi, per ascoltare tutta l’opera di Liszt!

Navigare alla ricerca della musica di Liszt…

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