Andreas Doppler, coniugato con due figli e benestante, vive in un bel quartiere di Oslo. La morte del padre e una improvvisa caduta dalla bicicletta convincono Doppler a una scelta totalizzante: lasciare ogni cosa per trasferirsi in una tenda in mezzo al bosco. È lì che, spinto dalla fame, uccide un alce, il cui cucciolo, però, gli rimane vicino. Decide di chiamarlo Bongo e di condividere con lui la nuova e avventurosa esperienza. I contatti con la città sono ridotti allo stretto necessario: qualche baratto e piccoli furti alla ricerca di utensili o altre vivande. Doppler, che vuole allontanarsi dalla gente, dalla civiltà del consumo e dal canone di presunta normalità e bravura che la pervade, fa comunque incontri particolari: con un ladro, di cui diventa amico e sodale; con Düsseldorf, il cui padre, che era un occupante nazista, è morto sulle Ardenne; e con un “tipo di destra”, che decide anch’egli di vivere nella foresta. Nel frattempo, Doppler accoglie nel suo rifugio anche il figlio Gregus, col quale intraprende la costruzione di un grande totem familiare. Alla fine dell’opera, divenuto padre per la terza volta, il nostro eroe sceglierà ancora di andare oltre, nonostante gli appelli e le intimazioni del cognato e della moglie.

A quasi vent’anni di distanza dalla prima lettura, Doppler pare più attuale e divertente che mai. Non è un caso che Iperborea lo abbia ripubblicato. L’ironia dello scrittore norvegese non risparmia nessuno: attacca, relativizzandolo all’estremo, un intero modello sociale, ivi compresi quelli che possono apparire i suoi limitati ravvedimenti o le sue piccole virtuose eccezioni. Oggi, poi, in una fase storica in cui il cambiamento climatico spinge tutti a ragionare sul senso ultimo di una ricetta di progresso e sviluppo apparentemente vincenti, quello di Doppler è un richiamo a un’esistenza radicalmente diversa: più spontanea ed essenziale, meno ipocrita e frenetica, e, soprattutto, non competitiva, ma fisiologica, perché armonizzata a esigenze elementari. A ben leggere, però, la rappresentazione di Loe ha un senso più ampio. Specie se collegato al suo sequel (Volvo), Doppler equivale al tassello fondativo di una moderna epopea alla Brancaleone, il cui personaggio, farsesco egli stesso, ci rivela nelle nostre più intime debolezze ed emozioni, e ci ricorda quanto lo spazio dell’uomo non sia un perimetro, bensì un viaggio. Prendere la strada del bosco non ha altro che questa direzione: disobbedire al confinamento, per accordarsi a una voce più intima e, paradossalmente, molto più afferrabile di ogni altra.

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I motivi per leggere questo poliziesco possono essere due. Innanzitutto si avvicina l’inverno, e quindi non c’è niente di meglio di un romanzo ambientato in luoghi in cui il freddo è senz’altro uno dei protagonisti. Oltre a ciò, non si tratta del solito giallo nordico: la trama è intrigante, ma il punto di forza è la capacità di incuriosire il lettore sulla storia, sui costumi, sulle condizioni attuali e sulla rappresentanza istituzionale della popolazione di etnia Sami, ossia di quelli che noi definiamo come Lapponi. È questo antichissimo e misterioso “popolo delle renne” a prestare alle pagine del romanzo tutto il suo innegabile fascino. Non mancano, in verità, alcuni elementi scontati: la critica per le storiche politiche di assimilazione forzata condotte dagli stati scandinavi; il mito di una cultura profondamente semplice e incontaminata; l’accusa alle tendenze xenofobe dei partiti di ultra-destra e alle spregiudicate operazioni industriali e commerciali poste in essere dalle multinazionali minerarie. Tuttavia, la magia dell’ambientazione regge, e così possiamo salutare il debutto di un nuovo team investigativo.

Klemet e Nina formano una delle tante pattuglie della polizia delle renne, che, come espressione volta a tutelare la minoranza Sami, non ha confini, e quindi può muoversi tra Norvegia, Svezia e Finlandia, per prevenire e dirimere i conflitti tra gli allevatori di questi particolari e vaganti capi di bestiame. Lui è un Sami, ed è un poliziotto esperto; lei è della Norvegia meridionale, ed è al suo primo incarico artico. Gli eventi li portano ad indagare su due fatti indipendenti ma pressoché concomitanti: il furto di un rarissimo tamburo rituale da un museo di Kautokeino; la morte violenta di Mattis Labba, un solitario e ambiguo allevatore della zona. Alcuni sospetti sono troppo facili e rischiano di riacutizzare il dolore di una discriminazione ancora imperante. Le reticenze dell’anziana Berit e l’ostinato silenzio del solitario Aslak non semplificano le cose. Nel frattempo, arriva sul posto un geologo francese, e le sue trame sembrano infittire i nodi da sciogliere, intrecciandosi con i disegni non certo nobili del vecchio Karl Olsen. È la memoria del popolo Sami, custodita nel prezioso tamburo, a mettere i due partner sulla strada giusta, aiutati dalle tracce di una vecchia spedizione scientifica, dai caratteristici joik del vecchio zio Ante e dall’expertise di una ricercatrice a dir poco granitica. La conclusione è quasi matematica, nel senso che si lascia facilmente attendere ben prima della fine del libro, con una chiusura che è lieta solo in apparenza e che ripete ancora una volta un’inarrestabile e tragico destino di sopraffazione, sgomento e abbandono.

Un recentissimo convegno sui diritti delle popolazioni indigene

Il “caso della diga di Alta” (di cui si parla anche nel romanzo)

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