Kevin Joyce e Alexander Belov sono stati due protagonisti della finale olimpica di basket di Monaco 1972, nella quale l’Unione Sovietica ha sconfitto gli Stati Uniti per un solo punto. La partita si è decisa negli ultimi secondi, come spesso accade nella pallacanestro. Ma in quel caso proprio gli ultimi secondi si sono giocati per ben tre volte, con un clamoroso ribaltamento del risultato e con tutte le code polemiche che la sfida tra le superpotenze poteva stimolare. Nel 2006, mentre a Londra sta per cominciare l’Olimpiade, Kevin Joyce si trova a Losanna e sta osservando un quadro di Hopper. Il romanzo di Poddi parte da qui: dai pensieri-ricordi del cestista sconfitto e dal fortuito caso che lo fa incontrare con una giovane guida del museo; ma anche dalle associazioni spazio-temporali che la rievocazione della mitica partita provoca nello stesso Autore, perché quell’epico confronto ha significato molto anche per i suoi genitori. Prende avvio, così, una serie di narrazioni sovrapposte e alternate, che coinvolgono anche le vicende di Alexander Belov, prima, durante e dopo la grande vittoria, e che cercano di seguire il percorso delle due squadre verso l’epico scontro. Non manca, naturalmente, la tinta di contesto – Monaco 1972 è anche lo scenario del famoso raid terroristico antiistraeliano, terminato in massacro – anche se il motivo del racconto ruota tutto attorno all’ambiguità della vittoria: che può apparire tanto grande e importante, quanto scoprirsi amara e debilitante; del resto, si può essere irrimediabilmente perdenti, eppure risultare in più modi degli autentici vincitori.

Il romanzo ha tanti pregi. È una vera storia di sport, a tratti quasi emozionante. Dà realmente l’impressione che tra lo sport e la vita di chi lo pratica e lo ama ci siano delle segrete e potenti combinazioni. È anche una storia ben scritta, specie negli snodi apparentemente più improbabili: ad esempio, anche l’improvvisa liaison tra Joyce e la ragazza che lo stimola a portare fino in fondo i suoi propositi è definita in modo tanto leggero quanto efficace. Sembra che tutto si tenga in questo libro, che forse, sul piano compositivo, palesa soltanto un paio di punti deboli: lo squilibrio complessivo tra la parte occupata da Joyce e quella dedicata a Belov; l’alternarsi troppo frequente tra i fili, diversamente intrecciati, delle vicende narrate. Al termine della lettura, però, si fa strada un’altra sensazione: che il prodotto, di cui pur si avverte il carattere di genuina espressione del suo Autore, sia ottimamente confezionato, pronto per incontrare la soddisfazione del pubblico. È questa sua natura, di esercizio riuscito, a colpire più di ogni altro aspetto. Tanto che, in definitiva, ciò che tra le pagine palpitava si trasforma rapidamente, a libro riposto, in qualcosa di più asettico. Non è certo una percezione spiacevole. Ma c’è da chiedersi che cosa sia Le vittorie imperfette: se sia effettivamente un romanzo a tutto tondo, capace di ricordo, di emozione duratura, o una prova d’artista, un tassello più che promettente per un’opera che ancora attende di manifestarsi.

Recensioni (di M. Fontanone; di M. Gaetani; di M. Nesto)

Un estratto

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Trovato morto nella camera del suo albergo a Estoril, in Portogallo, Alexandre Alekhine, uno dei più grandi campioni di scacchi di tutti i tempi, è scomparso il 24 marzo 1946, alla vigilia di una partita che, dopo gli orrori del secondo conflitto mondiale, avrebbe potuto riconsacrarne il valore. Molti indizi – e anche il referto medico – hanno sempre fatto pensare a un decesso naturale, frutto dell’alcol e di un’alimentazione sregolata. Ma è davvero andata così? L’io narrante non ne è convinto e prova così a indagare e a rievocare gli ultimi giorni dello scacchista russo. Forse qualcuno voleva ucciderlo: sono tante, infatti, le ombre che che si allungano su questa vicenda. Strani personaggi, da un lato, sembrano accusarlo di complicità con il Terzo Reich, poiché, pur di continuare a giocare, aveva militato anche sotto quelle terribili insegne, trovando protezione in un potente gerarca. Con tutta probabilità, poi, anche il regime staliniano vuole sbarazzarsene, sia perché rappresenta la figura del perfetto controrivoluzionario e traditore sia perché la sua grande abilità potrebbe effettivamente sconfiggere la maestria del giovane sfidante Botvinnik, orgoglio della scuola scacchistica sovietica e nuova arma di una guerra, quella fredda, ormai alle porte. Dove sta la verità? Forse è stata la polizia segreta del governo portoghese a orchestrare ogni cosa o forse, semplicemente, si è trattato di un ultimo regolamento di conti tra un uomo di genio e i tanti demoni che ne hanno sempre tormentato l’esistenza.

Maurensig torna al genere di racconto – e all’editore – che lo aveva visto debuttare e diventare subito famoso, con La variante di Lüneburg. Da questo punto di vista Teoria delle ombre poteva considerarsi ad alto rischio di remake; e forse una certa atmosfera di quel bel libro si riconosce pure qui, anche se quest’ultimo romanzo riflette l’esperienza di scrittura – e di ricerca introspettiva – che aveva dato vita a L’arcangelo degli scacchi. Vita segreta di Paul Morphy. Maurensig non aveva mai lasciato gli scacchi. Dopo la parentesi (peraltro fortunata) di Canone inverso, si era cimentato anche ne L’ultima traversa, dimostrando di voler riprendere un discorso che, tuttavia, non gli è più riuscito particolarmente facile (né altrettanto felice). Probabilmente ciò era dovuto al fatto che la magia di questo gioco e dei suoi carismatici pezzi attira da sempre, su di sé, un alone di grandi potenzialità narrative, pari forse alla ricchezza e alla molteplicità delle mosse e delle combinazioni che sono possibili solo sulla scacchiera. Per riuscire veramente bene, quindi, occorre andare a grande profondità, un po’ come aveva fatto Stefan Zweig, e un po’ come aveva cercato di fare, da ultimo, Fabio Stassi. Se questo è vero, si può affermare che il bello di Teoria delle ombre non è nell’intreccio quasi spionistico. La virtù del libro è nell’abbandono, nel gesto, cioè, che l’Autore vuole compiere allorché decide – nel lungo intermezzo che copre quasi tutto il volume – di far scorrere, direttamente, la storia di una deriva: quella di un’individualità travolta dagli eventi e dai rapporti con gli altri, ma aggrappata fino alla fine all’unica dimensione che ne ha consentito la sopravvivenza, in un luogo – ai molti inaccessibile – in cui Bene e Male, per come li conosciamo, non hanno più alcun significato.

Recensioni (di Bruno Quaranta, Maurizio Crippa, Annarita Briganti, Paolo Mauri, Nicola Vacca, Lidia Lombardi, Michele Meloni Tessitori, Carlo Macchitelli, Nicolò Di Girolamo)

Paolo Maurensig a Fahrenheit e alla Radiotelevisione svizzera

Un’intervista all’Autore

Il sito di Maurensig

Per i più appassionati… le partite di Alekhine

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