Sull’ultimo numero de “La Parola agli Antichi”, per la rubrica “Fendenti”, è stata pubblicata una lettera. Il professore l’ha letta, e così hanno fatto tutti i suoi colleghi e collaboratori; anzi, tutta l’università ne parla. È un vero e proprio attacco, non c’è dubbio: si mette in dubbio la capacità e la reputazione dell’illustre docente, colto in fallo dall’ignoto lettore a proposito della corretta etimologia della parola “ipocrita”. Il professore, più che turbato, comincia la caccia, alla ricerca del nemico, la cui erudizione lascia supporre che non sia uno sprovveduto: che sia un altro membro della Facoltà? O forse uno studente? Che sia, forse, Daverio, il collega che in molti sembrano sospettare, per via dell’attrazione, che ha sempre coltivato, per la moglie del professore? Certo Daverio è letteralmente ossessionato per la giovane donna… Il fatto è che anche il professore ha una seconda vita, non certo più nobile. E la lettera gli ha fatto perdere sia la lucidità che credeva di avere sia il senso del pieno controllo della sua carriera e del suo ménage quotidiano. Quasi gli viene il dubbio che la polemica sull’ipocrita non sia questione di vocaboli ma lo riguardi personalmente. Poi – come in una delle grandi partite di scacchi del passato, delle quali il professore è appassionato – accade qualcosa di imprevisto, la scelta sbagliata che permette a uno dei due giocatori di scegliere una tattica nuova, apparentemente perdente e in definitiva vincente. Ma è vera vittoria?

Il giocatore invisibile è un romanzo raffinatissimo, che si può comprendere a fondo solo alla seconda o alla terza lettura. In superficie la storia può sembrare banale o scontata, percorsa com’è da motivi apparentemente triti e ritriti e infarcita di tanti stereotipi della vita accademica. Non che queste immagini siano sempre fallaci: Pontiggia, bisogna ammetterlo, raffigura il consueto zoo universitario in modo particolarmente verosimile. Ma il quadro è così efficace che ci si potrebbe fermare lì, senza accorgersi di altro. La stessa osservazione vale per l’estrema precisione compositiva, vero pregio dell’opera. Pontiggia studia parole e dialoghi in modo pressoché perfetto; se ne rimane facilmente sorpresi e ammirati, e questo è un dato ancor più notevole, visto che l’italiano utilizzato non è dei più semplici. È la dimostrazione che si riesce a scrivere bene e a farsi capire senza rinunciare a tutte le potenzialità della parola nazionale. Tuttavia, un’altra volta, ci si potrebbe fermare qui. Eppure il pervicace approfondimento espressivo induce a pensare che ci sia di più (perché mai tanto sforzo?) e che Pontiggia abbia voluto costruire, sulla forma, un ingranaggio, preciso come quello di un orologio e, al momento giusto, implacabile come la mossa risolutiva di un campione di scacchi. È su questo piano, infatti, quello della scacchiera, che si intravede il segreto del libro, quando, soltanto alla fine, di fronte ai molti non detti della chiusura, ci si arrende volentieri al dubbio che il professore ferito abbia ordito un piano mostruoso, accettando, nella battaglia, di sacrificare fatalmente il pezzo più importante per tentare di sconfiggere del tutto il suo avversario. Alla prima lettura il dettaglio non si rivela in modo compiuto. Poi, ad un altro sguardo, le sfumature si venano di un colore inatteso, frasi e figure cooperano in modo altrettanto decisivo, e si comprende che la macchina stilistica costruita da Pontiggia è perfettamente proporzionata all’obiettivo: rappresentare l’assurda perfezione di una vera deriva, conclamata nel suo farsi quanto incosciente e disperata. Per ben due volte si è tentata una trasposizione cinematografica del romanzo: la prima (filologicamente più corretta) con Adolfo Celi e Catherine Spaak; la seconda (più recentemente) con il bravo Luca Lionello. Ma (ri)leggere Pontiggia è un po’ come (ri)leggere Bassani, e alla fine ci si rallegra che il film, per quanto bello, non si possa mai avvicinare al libro.

Recensioni (di Giuseppe Pili; di Maria Tortora; di Margherita Lollini)

Un bel ritratto di Giuseppe Pontiggia

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Trovato morto nella camera del suo albergo a Estoril, in Portogallo, Alexandre Alekhine, uno dei più grandi campioni di scacchi di tutti i tempi, è scomparso il 24 marzo 1946, alla vigilia di una partita che, dopo gli orrori del secondo conflitto mondiale, avrebbe potuto riconsacrarne il valore. Molti indizi – e anche il referto medico – hanno sempre fatto pensare a un decesso naturale, frutto dell’alcol e di un’alimentazione sregolata. Ma è davvero andata così? L’io narrante non ne è convinto e prova così a indagare e a rievocare gli ultimi giorni dello scacchista russo. Forse qualcuno voleva ucciderlo: sono tante, infatti, le ombre che che si allungano su questa vicenda. Strani personaggi, da un lato, sembrano accusarlo di complicità con il Terzo Reich, poiché, pur di continuare a giocare, aveva militato anche sotto quelle terribili insegne, trovando protezione in un potente gerarca. Con tutta probabilità, poi, anche il regime staliniano vuole sbarazzarsene, sia perché rappresenta la figura del perfetto controrivoluzionario e traditore sia perché la sua grande abilità potrebbe effettivamente sconfiggere la maestria del giovane sfidante Botvinnik, orgoglio della scuola scacchistica sovietica e nuova arma di una guerra, quella fredda, ormai alle porte. Dove sta la verità? Forse è stata la polizia segreta del governo portoghese a orchestrare ogni cosa o forse, semplicemente, si è trattato di un ultimo regolamento di conti tra un uomo di genio e i tanti demoni che ne hanno sempre tormentato l’esistenza.

Maurensig torna al genere di racconto – e all’editore – che lo aveva visto debuttare e diventare subito famoso, con La variante di Lüneburg. Da questo punto di vista Teoria delle ombre poteva considerarsi ad alto rischio di remake; e forse una certa atmosfera di quel bel libro si riconosce pure qui, anche se quest’ultimo romanzo riflette l’esperienza di scrittura – e di ricerca introspettiva – che aveva dato vita a L’arcangelo degli scacchi. Vita segreta di Paul Morphy. Maurensig non aveva mai lasciato gli scacchi. Dopo la parentesi (peraltro fortunata) di Canone inverso, si era cimentato anche ne L’ultima traversa, dimostrando di voler riprendere un discorso che, tuttavia, non gli è più riuscito particolarmente facile (né altrettanto felice). Probabilmente ciò era dovuto al fatto che la magia di questo gioco e dei suoi carismatici pezzi attira da sempre, su di sé, un alone di grandi potenzialità narrative, pari forse alla ricchezza e alla molteplicità delle mosse e delle combinazioni che sono possibili solo sulla scacchiera. Per riuscire veramente bene, quindi, occorre andare a grande profondità, un po’ come aveva fatto Stefan Zweig, e un po’ come aveva cercato di fare, da ultimo, Fabio Stassi. Se questo è vero, si può affermare che il bello di Teoria delle ombre non è nell’intreccio quasi spionistico. La virtù del libro è nell’abbandono, nel gesto, cioè, che l’Autore vuole compiere allorché decide – nel lungo intermezzo che copre quasi tutto il volume – di far scorrere, direttamente, la storia di una deriva: quella di un’individualità travolta dagli eventi e dai rapporti con gli altri, ma aggrappata fino alla fine all’unica dimensione che ne ha consentito la sopravvivenza, in un luogo – ai molti inaccessibile – in cui Bene e Male, per come li conosciamo, non hanno più alcun significato.

Recensioni (di Bruno Quaranta, Maurizio Crippa, Annarita Briganti, Paolo Mauri, Nicola Vacca, Lidia Lombardi, Michele Meloni Tessitori, Carlo Macchitelli, Nicolò Di Girolamo)

Paolo Maurensig a Fahrenheit e alla Radiotelevisione svizzera

Un’intervista all’Autore

Il sito di Maurensig

Per i più appassionati… le partite di Alekhine

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Ci sono momenti nei quali il migliore antidoto per la stanchezza – fisica, psichica, intellettuale… – è un buon libro giallo o un buon thriller. Il problema, però, è sempre lo stesso: quello della scelta. Quale giallo? Quale thriller? Perché i lettori, tutti, lo sanno benissimo: la scelta sbagliata non “vince” la stanchezza, rischia soltanto di portarla a livelli insopportabili; anzi, alla stanchezza si può soltanto aggiungere una delusione cocente, mista a depressione galoppante. Ad ogni modo, il più delle volte bisogna sapersi accontentare, cogliendo le energie positive che anche un’opera complessivamente modesta può nascondere tra le sue pagine. Questo è il caso, in effetti, de Il maestro di scacchi, nuova avventura del giovane e svagato Max Perri, avvocato per destino familiare più che per passione.

Ad essere onesti, i fattori di potenziale e immediato “disincanto” sono svariati e dovuti ad elementi narrativi che replicano espedienti un po’ scontati: è da poco passato il 150° anniversario dell’Unità, e molti dei misteri che aggrovigliano l’intreccio poggiano le loro radici, guarda caso, proprio in pieno Risorgimento; passato e presente si articolano in rapide, ma numerose, sequenze, e la struttura del romanzo ne riesce un po’ troppo frammentata, al punto che spesso si rischia la confusione; la definizione dei caratteri di quasi tutti i personaggi è molto marcata, e in alcuni casi sembra di trovarsi di fronte a caricature stereotipate di modelli già sperimentati, come quello della giovanissima Chiara, un po’ dark, un po’ asociale, un po’ brillante e, naturalmente, un talento scacchistico e, al contempo, una ragazza “carina” e intelligente. Ma anche il prof. Terrani e tutta la “stirpe” della nobilissima e papalina famiglia Oderisi sembrano emergere da un cocktail già bevuto, un po’ Augias (I segreti di Roma) e un po’ Pérez-Reverte (Il club Dumas). Alla fine, poi, ma non proprio “alla fine” (purtroppo…), lo snodo dell’intrigo si intuisce facilmente e l’illusione di imminenti e tonificanti colpi di scena ne risulta smontata altrettanto semplicemente.

Tuttavia, ci sono ingredienti che compensano abbondantemente queste carenze e che rendono ancora una volta godibile il frame in cui si muove la penna dell’avv. Salvatorelli: che enfatizza con il giusto colore alcuni aspetti, comuni ma reali, dell’attività forense e del relativo ambiente; che crea, nella figura di Max, un “collega” che non si prende troppo sul serio, riesce istintivamente simpatico e interagisce alla perfezione con la sua squadra, Rita, Giulia-pancia (!) e HAL (alias Roberto: ecco, forse troppo zelante per essere un praticante di uno studio legale…); che ci racconta, sotto sotto, delle sue genuine passioni (per la musica, per il collezionismo, per una certa epoca storica, per un certo qual modo di guardare alla professione e alla vita quotidiana); che semina abilmente indizi per incuriosire il lettore affezionato a ritrovare gli stessi interpreti sulla possibile scena di un’eventuale prossima indagine.

Caina attende e Il collezionista ostinato erano forse migliori; ma non possiamo pretendere che Max Perri sia sempre sulla cresta dell’onda. Diciamo che, per ora, gli diamo appuntamento in qualche mercatino di Porta Portese e lo lasciamo gustarsi, di nascosto, un qualche quadretto di ottima cioccolata fondente. Un tipo come lui merita complicità e indulgenza.

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