… e diremmo anche “Storia di una passione personale ed autentica”, perché tutto il libro serve a giustificare, meravigliosamente, la confessione racchiusa nelle sue ultime righe: “Se potessi ricominciare oggi, sceglierei di nuovo la letteratura. Se le risposte esistono, in questo mondo o nell’universo, sono ancora convinta che le troveremo proprio là” (p. 302). Elif Batuman, posseduta “coi fiocchi”, ci racconta alcune delle sue esperienze letterarie preferite e ci ricorda quanto può essere intenso, oltre che indispensabile, il fuoco della curiosità intellettuale.
Ci sono, comunque, tre motivi specifici per leggere questo libro, a suo modo molto singolare. Il primo ha a che fare con gli aneddoti, le spigolature, le curiosità e le brillanti intuizioni su vita e opere di alcuni dei più grandi narratori dell’immensa tradizione russa tra Ottocento e Novecento. Da questo punto di vista i capitoli Babel’ in California e Chi ha ucciso Tolstoj? sono, semplicemente, squisiti. Del primo “gigante” la Batuman coglie perfettamente l’ostinazione nella vita: difficile trattenersi e non rileggere, ancora una volta, L’Armata a cavallo e i suoi strani e intensissimi racconti. Di Tolstoj, invece, e della mitica tenuta di Jasnaja Poljana, sentiamo persino il fiato, mai corto, sempre robusto e lussureggiante, sempre così irresistibilmente solido e catartico, e sempre così proteso alla ricerca di un equilibrio fecondo tra realtà e condizione ideale.
La seconda virtù del volume, invece, trascende la prospettiva della Wunderkammer bio-bibliografica (portata a vette difficilmente raggiungibili nel pezzo su Il Palazzo di ghiaccio) per manifestarsi sotto forma di profonda riflessione, un po’ meta-letteraria, un po’ intra-letteraria. Leggere o scrivere o interpretare storie, romanzi o novelle non è soltanto evasione. Da un lato, le parole nascondono misteri e allusioni profonde, e il loro uso si combina in meccanismi che vogliono essere immagine di situazioni e pensieri universali e totalizzanti: ragionarci sopra è come percorrere una parte di tutti e di noi stessi. Dall’altro, però, la comprensione di questa dimensione passa, sorprendentemente, anche attraverso ciò che le potrebbe apparire più estraneo, ossia il minuto, il dettaglio e l’interstizio; se possibile anche attraverso il respiro della stessa aria che ha inalato l’autore, l’analisi dei suoi luoghi, delle sue fonti di ispirazione, dei suoi difetti e della sua quotidianità, delle sue peripezie e dei suoi dolori.
Il terzo punto di forza consiste nella possibilità di saggiare che cosa può accadere ad un tipico profilo di giovane studioso “globale”, a contatto con le stranezze, le eccentricità, le avventure, le casualità e i paradossi del mondo accademico e degli imprevedibili percorsi della ricerca universitaria. Questa è costellata di incertezze e di irripetibili occasioni, di delusioni e di ineffabili speranze, grandi o piccole; ma è anche il modo per conoscersi meglio e per confrontarsi con tanti altri “posseduti”, per capire di volerli “avvicinare” e di volerli “evitare” allo stesso tempo, in un rapporto di “amore e odio” e di sensibilità sempre acuminate. In questa direzione, il resoconto, in tre parti, sull’Estate a Samarcanda è qualcosa di più di un’iniziazione metodologica o di un “romanzino” di formazione o di un viaggio nella memoria e nelle radici di una predisposizione irrefrenabile: è la somma delle tappe che un personaggio di un romanzo russo potrebbe ancora percorrere, per “uscire dal guscio” e ritrovarsi, finalmente e irrimediabilmente, convinti (non importa se vincitori o sconfitti) nella propria scelta di vita.
In conclusione, per questa giovane scrittrice di origine turca, non potrebbe esserci un omaggio migliore: anche per lei vale l’invito che Pietro Citati rivolge dalla quarta di copertina dell’edizione economica Adelphi de Il dono di Nabokov: «Dovunque siate, a casa o in ufficio, qualsiasi cosa stiate facendo… uscite subito e precipitatevi dal libraio. I posseduti è lì, e vi attende»!
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