Ogni tanto tornare a Philip Kerr non fa per niente male. Il ciclo Berlin Noir e il suo impareggiabile detective, Bernie Gunther, sono pietre miliari della “letteratura internazionale”, così come lo sono i “prodotti” di John Grisham, Wilbur Smith o Patricia Cornwell: il bestseller è il loro “luogo” più congenito. Con il vantaggio, però che l’ambientazione cui lo scrittore scozzese riesce a mettere mano di volta in volta è molto più solida e suggestiva, e che il protagonista è un concentrato di sfrontatezza-cuore-cinismo da far invidia al più classico degli investigatori da fumetto.
In questo libro Gunther è nella sua veste di detective d’albergo, una sorta di scafato “alligatore”, che ha il compito di tenere “puliti” i fondali dell’elegante e prestigioso Hotel Adlon di Berlino: l’avvento del nazismo lo ha allontanato dalla polizia criminale; occorre essere fedeli al partito, e uno come lui, fedele alla Repubblica di Weimar, proprio non ci riesce. In queste sue mansioni si imbatte in una serie di traffici poco chiari, che intrecciano la corruzione del neonato regime e le mire speculative dei peggiori gangster d’oltreoceano. È il 1934, e le Olimpiadi del 1936 sono una buona occasione per lucrare sugli appalti per le grandi opere pubbliche e sullo sfruttamento del lavoro di ebrei e perseguitati politici, ormai sistematicamente esclusi da qualsiasi occupazione dignitosa. Gunther si imbatte in un malavitoso americano e lì cominciano i suoi guai, che tra i pericolosi contatti con la Gestapo e uno sprazzo di vera storia d’amore con la bella Noreen culminano in modo drammatico ma enigmatico sul ponte di un battello. La storia, poi, si sposta nel 1954, nella Cuba di Batista, dopo la guerra e dopo le dolorosissime vicende che hanno spinto il nostro eroe a fuggire dalla Germania e a crearsi una nuova identità. Tutto sembra normale, ma Bernie rivede Noreen, e le vicende si susseguono fino all’epilogo chiarificatore.
Con Kerr, in verità, non c’è quasi mai da aspettarsi una conclusione del tutto compiuta, perché ad essere tale è la figura di Gunther, sempre e comunque “bastante” a se stessa, dall’inizio alla fine: votato al compromesso ed una sorta di sopravvivenza avventurosa e quasi causale, questo detective è alfiere di un fatalismo tragico che, senza nascondersi dietro particolari colpi di scena e senza ammiccare necessariamente all’idea di un poliziotto speciale, intellettualmente e fisicamente dotato, parla a tutti i lettori. La forza di Kerr è sempre l’umanità “estrema” e “condannata”, limitata, ma capace, proprio perché imperfetta, di ogni bassezza e di ogni sacrificio, ma anche di ogni nobile aspirazione e di ogni grande “gesto”.
Si può fare comunque un appunto, che non è, tuttavia, rivolto all’Autore, bensì all’editore italiano che lo rende noto anche al nostro pubblico. La traduzione, davvero, non sempre è all’altezza, ed anche alcune scelte stilistiche, o “di resa”, sono nettamente stonate. Quanto varrebbe Philip Kerr con un doppiaggio più sicuro?
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