Fine della seconda guerra mondiale: un bambino di sette anni, con una sedia sopra la testa, attraversa spavaldo una Trieste liberata ma ancora militarizzata. È Flavio, il papà dell’Autore. L’immagine – immortalata in una vecchia foto di giornale – apre una fitta galleria di ricordi, di racconti, di conversazioni, e anche di indagini: sulla propria eredità sentimentale e sulla storia di una città multietnica e conflittuale. I due livelli si sovrappongono costantemente, con un effetto di rimbalzo reciproco, talvolta semiserio e scanzonato, talvolta emotivamente forte, comunque molto efficace. La sensazione è che i protagonisti siano tutti attori di un film, che va assemblandosi pagina dopo pagina. È il lungometraggio di una terra e di una popolazione martoriate da un lungo destino di esili, di guerre, di passioni, di separazioni, di crimini e scontri atroci, al di qua e al di là della cortina di ferro. Ma è anche l’autobiografia di un’identità multiforme e di una comunità esuberante, da sempre eterogenea ed errante; la fisiologia di un avvitarsi collettivo e individuale psicologicamente complesso, sempre indefinito, e per questo fertile e maturo, pronto per una nuova chance di vivace cosmopolitismo, sulle orme di Berlino e di Belfast. Di questo vuole convincersi, e convincerci, anche Covacich, che in una tale impresa si fa aiutare dai suoi eroi, dai personaggi che ha deciso di eleggere a numi tutelari del suo percorso narrativo: il poeta croato Ivan Goran Kovačic, rievocato nell’esemplare durezza della sua tragica e paradossale parabola esistenziale; lo scrittore italianissimo Pier Antonio Quarantotti Gambini, alfiere, testimone e custode di un’epoca di slanci e di rivendicazioni politiche e culturali; il grande compositore istriano Antonio Bibalo, triestino di nascita ma campione riconosciuto solo nella sua Norvegia; e il Fulvio Tomizza di Materada, il collega e il compatriota a tutti gli effetti, riscoperto tra i colori tenui di un paese, il suo paese, che, a ben vedere, non ha mai smesso di essere allergico a ogni confine.
Il libro è semplicemente bello. Forse la chiusa cede un po’ alla retorica, e i ripetuti riferimenti a Kafka e a Joyce, come a Svevo e a Saba, sono un po’ di troppo, perché scontati (ma come evitarli?). Eppure la Trieste di Covacich è un universo che attrae. In primo luogo perché ciascuno di noi ne ha una: è la città della nascita e dell’adolescenza; degli affetti e delle genealogie familiari; delle fughe, delle nostalgie e dei ritorni; di tutti i piccoli grandi miti personali, sui quali vorremmo scrivere tutti una sceneggiatura, anche soltanto per trarne egoisticamente un supplemento di energia e di motivazione. Poi, però, in questo testo emerge anche una virtù che trascende questo piano. Trieste è uno snodo singolare di culture e di occasioni di analisi e di pensiero, un luogo in cui si può essere tante cose – italiani, asburgici, sloveni, croati, ebrei, contadini, marinai, impiegati, migranti, viaggiatori, imprenditori, musicisti, scrittori… – senza mai provare la sensazione di non capirsi. Anzi, l’idea di Covacich è che questo impasto sia, più in generale, il segreto e il modello di un’umanità più ricca, quella di cui il nostro tempo (la nostra Europa) sembra avere davvero bisogno. Ed è un’idea – particolare non trascurabile – scritta bene, con grazia, e assistita da un approccio molto interessante alla letteratura e allo spazio che per l’Autore le si addice più di ogni altro. A Covacich interessa la descrizione e l’analisi del rapporto costante e fondamentale tra l’io e le tante cose che lo costituiscono dall’esterno, offrendogli così il modo di essere davvero cosciente e determinante. Ecco perché questa Trieste non è un semplice spot sul fascino di un capoluogo mitteleuropeo. In una simile prospettiva – i luoghi come laboratorio dell’anima e della consapevolezza, personale e collettiva – il titolo del libro è già un manifesto più che eloquente; non serve dire altro. Può essere utile, invece, aggiungere un consiglio: provare a leggere La città interiore dopo aver visto due brevi docufilm, entrambi usciti nel 2012 dalla fucina di Elisabetta Sgarbi: Il viaggio della signorina Vila e Trieste: la contesa. Due piccoli gioiellini, che, con questo volume (prodotto, in fondo, dalla stessa firma…), completano un trittico suggestivo e stimolante.
Recensioni (di E. Barbieri, C. Battocletti, A. Mezzena Lona, S. Pent, C. Taglietti)
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