Un noto slogan pubblicitario interroga i telespettatori chiedendo loro se gli piaccia “vincere facile”. A chi non piacerebbe? Dopo la lettura di questo saggio, confezionato sulla base del testo di una conferenza replicata in più occasioni, si può dire che la cosa piace anche a Salvatore Settis. Perché Se Venezia muore ha tutto per strizzare l’occhio ad un pubblico sensibile, colto e attivo, e quindi anche per convincerlo – e radicarlo ulteriormente – sulla bontà delle tesi che vi sono sviluppate. Che si tratti di interrogativi forti, infatti, e su piano teorico largamente fondati, non c’è dubbio. Per quale motivo una città così ricca di tradizioni gloriose e di testimonianze artistiche e culturali altrettanto preziose dovrebbe abbracciare un modello omologante e globale di sviluppo urbano? Per quale ragione dovrebbe assecondare la propria trasformazione in un parco di divertimenti accerchiato da vistose quanto inutili vestigia di cemento? Perché dovrebbe perdere i suoi abitanti e la sua memoria? E perché la comunità locale dovrebbe smarrire la coscienza del proprio diritto alla città, consegnandone le sorti a committenze e progettisti completamente sradicati? In definitiva, l’analisi pare davvero convincente – “sounds good”, si direbbe – al punto che il capoluogo lagunare assurge plasticamente a prototipo perfetto di un caso che può riguardare, ormai, tante altre città storiche e che si presta, dunque, a simboleggiare in modo suggestivo i capisaldi delle nobili battaglie che l’Autore ha dimostrato di voler condurre finora (da Paesaggio Costituzione Cemento a Azione popolare. Cittadini per il bene comune).
A ben pensarci, però, l’approccio proposto da Settis – che sulle chiare e dichiarate orme di Henri Lefebvre, rilancia senza infingimento i toni impegnati di un classico del pensiero marxista degli anni Settanta – rappresenta ancora tutti i limiti di chi è forte nella pars destruens e debole, se non muto, nella pars construens. Non si può, certo, credere, ad esempio, che il rimedio alle tendenze degeneranti dell’architettura contemporanea possa consistere nella formulazione di un “giuramento di Vitruvio”, sul calco di quello, più noto, di Ippocrate. Ma soprattutto, di fronte alle tesi di Settis, non si può resistere all’impressione che, per far sì che i cittadini si riapproprino del loro spazio e dei relativi tesori, sia indispensabile presupporre che essi si diano tuttora come corpo autocosciente, con l’eventualità che i loro progetti si rivelino molto meno virtuosi di ciò che dall’alto della critica si può soltanto supporre. D’altra parte è assai evidente – e tanto più lo è nel caso veneziano – che di una simile collettività vi è poca traccia e che il più delle volte essa assume le fisionomie di un corpo tanto sfaccettato e frammentato quanto conservatore, nostalgico e campanilistico (giacché, come è noto, anche il riferimento alla storia, alla civiltà e alla loro tutela può scivolare nel più comodo degli alibi come della più inutile delle pose). Allo stesso tempo, è inevitabile riconoscere che la vita di una città passa per mutazioni costanti, che possono alimentarsi anche soltanto di sovrapposizioni, riusi o camouflages, ma che, come tali, ambiscono comunque a cercare identità nuove, potenzialmente molto distanti dal canone originario. I molti e curiosi nomi delle calli e dei campi di Venezia continuano a tradire un brulichio di esperienze, di vicende, di commerci e di mestieri, sovrapposti e mai del tutto compiuti. La città, in sostanza, non può nutrirsi soltanto di grandi speranze, poiché ruota, ancora e sempre, attorno ad un’insopprimibile esigenza di concretezza e di futuro effettivamente afferrabili. Se proprio si vuole percorrere la strada di una riscoperta reticolare della città, allora, rispetto alla (pur) condivisibile (ma astratta) istanza di (un?) bene comune, meglio affidarsi ad una diversa microfisica del potere e alla resistenza di tanti piccoli fatti, come sta avvenendo con successo in altrettanti Comuni italiani. Il tempo della retorica può anche aspettare.
Per continuare a riflettere sul tema: P. Maddalena, Il patrimonio, bene comune degli italiani. Proprietà collettiva, proprietà privata e interesse pubblico (2014); P. Berdini, Le città fallite. I grandi comuni italiani e la crisi del welfare urbano (2014); S. Marini (Edited by), Future Utopia (2015).
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