L’io narrante di questa nuova storia di Pardini è un giornalista, che vive in presa diretta lo strano e progressivo aggravarsi di una drammatica crisi, prima locale e poi globale. Un misterioso uccello, di specie mai vista, attacca gli uomini, per cavarne gli occhi e cibarsene. L’Accecatore – così viene presto chiamato – colpisce chiunque e ovunque, senza preavviso. In tutto il mondo le autorità cominciano a prendere alcune misure, tra cui quella di obbligare i cittadini a indossare speciali occhiali protettivi. Le ipotesi sull’origine del flagello sono molte, le più disparate, ma lungi dal risolversi il caso si complica. Le istituzioni e i loro gangli più segreti si attivano e si fanno anche minacciosi, preoccupati più di salvare se stessi che le persone. Agli attacchi dell’Accecatore, inoltre, si aggiungono le incursioni terribili di altri uccelli, che non risparmiano nulla e nessuno, e che paiono riprodursi costantemente e inesorabilmente. Sono dei veri e propri Assalitori, dinanzi ai quali si cerca di proteggere case, persone e spazi pubblici con reti metalliche e inferriate. Laddove risulti necessario per salvare gli uomini colpiti da improvvisi assedi, non si esita a sacrificare bovini, maiali o animali domestici, appositamente raccolti per ogni evenienza. Anche il narratore, alla fine, barricato nella sua abitazione, deve fare i conti con l’insolita e fatale mostruosità: “Gli uccelli hanno cominciato ad entrare, li ho di fronte, mi sono a petto. Debbo impugnare le armi. Mio Dio, aiutami”.

A leggere L’Accecatore non si può non pensare al Covid-19, anche se le immagini evocate da Pardini hanno un tenore molto più biblico di quello che si può registrare nelle cronache quotidiane di questi ultimi due anni. Anziché letterario, tuttavia, l’accostamento che riesce immediato è cinematografico: L’Accecatore richiama inevitabilmente alla memoria Gli uccelli di Hitchcock, con il duplice senso di inspiegabile catastrofe e crash psicologico che sa comunicare quel famoso film. Ma con una certa differenza, non secondaria. Il masterpiece del maestro del brivido poggia tutto sulla non razionalizzabilità di un evento, sulla rappresentazione di qualcosa di letale, crescente e suscettibile di farci letteralmente impazzire. Il romanzo di Pardini, invece, aggiunge qualcosa. Mette innanzitutto in scena un processo di tragico adattamento collettivo, in cui la serietà del rischio non sembra fronteggiata in un rigurgito di ritrovata coralità sociale, risultando piuttosto ribaltata su di una serie di iniziative variamente autoreferenziali e per ciò solo insufficienti. In tale quadro, di sproporzionata ed egoistica frammentazione, il protagonista-narratore è destinato a ritrovarsi solo, fino alla fine, come sono condannati ad esserlo tutti, soprattutto quando la natura si dimostra nella sua veste di forte e implacabile matrigna. Eppure in Pardini è sempre l’uomo ad essere manchevole. E in effetti, anche in quest’ultima prova – che Pequod ha il merito di seguire, sia pur con qualche piccolo difetto di editing – è implicito un dolente richiamo alla necessità, tanto più in situazioni di emergenza così complessa, di riscoprire un’essenziale, e animale, spirito di comunità di specie. L’alternativa è la folle, impari e disperante lotta individuale.

Una recensione (di B. Di Monaco)

Un’intervista all’Autore

Un ritratto di Pardini (di D. Bregola)

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