Che cosa ci fa Lisa Mancini, già promettente investigatrice dell’Interpol, in quel di Montezenta? Sulla giovane e nuova dirigente del piccolo commissariato romagnolo girano tante voci. Certo è che Lisa passa larga parte del suo tempo al cellulare, a giocare a Candy Crush. Così, almeno, fino all’improvvisa scomparsa di River, il figlio adolescente di due artisti inglesi di Ca de Falùg, piccola ed eccentrica comunità poco distante dal paese e dalla vicina fonderia. Questo, apparentemente, è lo stimolo che Lisa attendeva per riattivarsi. Dove sarà finito, dunque, il ragazzo? Le indagini si articolano in modo meticoloso e sistematico, sulle tracce di ogni dettaglio potenzialmente rilevante. Ma questa è solo l’occasione per un’investigazione che si rivela presto diversa. Infatti, mentre comincia a legare con i suoi sottoposti, Lisa si imbatte in tante altre storie: quella di Aimee, la mamma di River; quella di Ting, la mamma di Maylin, una bambina cinese scomparsa come River; e quella di Iole, la signora anziana che col marito Domenico affitta a Lisa la camera in cui soggiorna. Le traiettorie di queste donne fungono da detonatore, anche se l’esplosione non è quella che ci si aspetta. Se da un lato Lisa porta a galla tristi e imprevedibili verità, dall’altro il caso che le è toccato in sorte resta consegnato a un orizzonte di mistero. Perché non sta lì ciò che il lettore deve cercare: l’enigma è nel percorso della stessa protagonista, nella sua condizione, di figlia e di donna, che gradualmente riaffiora e, forse, la chiama ad una consapevolezza finalmente matura.
A prima impressione questo libro – che non è propriamente un giallo o un poliziesco – si potrebbe definire come un racconto al microscopio. Praticando un metodo che è annunciato già nell’elaborazione grafica della copertina, l’Autrice regola la lente del narratore onnisciente e la porta al massimo ingrandimento praticabile. In particolare, punta dichiaratamente l’obiettivo sul “vetrino” che si trova al di là del fiume e tra gli alberi, in una immaginaria località da studiare, e osserva le vicende di un microcosmo plurale. Sposta la sua attenzione da un organismo ad un altro e ne descrive volta per volta la fisiologia più intima, la meccanica dei rispettivi sentimenti. Di più: adegua lo stile all’oggetto, trasformando il testo in una sorta di diario di campo, con commenti e rilievi costanti, spesso tra parentesi. Lisa Mancini, peraltro, non è soltanto la protagonista dell’azione osservata. Non c’è dubbio che essa sia l’organismo su cui la lente dell’Autrice è meglio e più focalizzata: una delle evidenti finalità del romanzo è misurarne i rapporti con gli altri organismi e, soprattutto, con le differenti figure femminili che inducono in Lisa stessa delle evidenti reazioni chimiche. Si tratta di includere Lisa nella cornice di un destino comune di resilienza emotiva e di farne un archetipo: innanzitutto allo scopo di valutare la concreta credibilità di un potenziale personaggio seriale (chissà se la Mancini potrà animare altri romanzi… l’epilogo pare quasi annunciare questo sviluppo); ma specialmente – ed ecco il secondo livello di interpretazione del testo – per fare il punto con se stessi. La protagonista, infatti, è anche un avatar dell’Autrice, spinto all’interno del “vetrino” dalla sapiente e sofisticata pipetta di una scrittrice che ben conosce i ferri del mestiere e che dalla letteratura trae un alimento costante (al di là dell’avvio hemingwayano, i credits illustrati in fondo al volume ne sono una prova più che tangibile). Se si coglie questa dinamica sotterranea, non si può che avere, in questi tempi di fiction televisive, un solo pensiero: Lisa Mancini, fortunatamente, è meglio (molto meglio) di Lolita Lobosco.
Una recensione (di G. Tammaro)
L’Autrice a Fahrenheit
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