Tutto è cominciato dal desiderio di avere una bici vera, una col palo, da adulto. Ma non c’erano i soldi; e il padre, affinché il figlio potesse comprendere come guadagnarsi il denaro per acquistarne una, ha portato il giovane Vitaliano a fagli vedere “da dove viene”, iniziandolo sin dall’adolescenza ai tanti travagli del lavoro. Comincia di qui un lungo memoir, in cui Trevisan racconta i suoi molti e vari impieghi, regolari o meno, collezionati prima di diventare uno scrittore a tutti gli effetti, dal tempo dell’adolescenza alla piena maturità. Operaio, manovale, trafficante estivo di acidi, mezzo muratore, aspirante geometra, capufficio, lattoniere, gelataio, magazziniere, portiere notturno: alla fine del libro è difficile ricordarseli tutti, anche se a tenerli assieme c’è più di qualche filo. Che tuttavia non è tirato tanto dall’Autore, dal suo carattere scostante, dal rapporto con i suoi familiari e dai suoi ripetuti e confessati fallimenti – quello matrimoniale compreso – quanto dagli ambienti che ha vissuto, dai segmenti borderline che ha condiviso con molti altri giovani, dalla vibrazione profonda di una moralità eccentrica che sa essere cinica, spregiudicata e, a suo modo, solida e infrangibile. E poi c’è l’ostinazione del voler essere un narratore vero, un magnetismo che è più forte di ogni altra alternativa, e di cui vediamo, passo dopo passo, la crescente intensità.
Come in altre occasioni, Trevisan racconta la carne e il sangue del famigerato e tragico Nordest, quello del miracolo economico e della devastazione territoriale e socio-culturale su cui ancora si regge, e dei quali questo libro disegna un’intima e a tratti impietosa fisiologia. Di materiale, ce n’è a non finire: sulle piccole e quotidiane furberie dei professionisti dell’edilizia; sulla presunta qualità di alcuni processi produttivi; sull’assoluta normalità del lavoro in nero; sull’identità delle diverse categorie di lavoratori e del padronato; etc. Soprattutto, però, il testo ci offre l’opportunità di guardare nel backstage di una vocazione letteraria, di capire, cioè, non solo da dove viene, e quali esperienze alimenta, il denaro di un’intera regione, ma anche da dove viene lo sguardo tagliente dell’Autore vicentino, che si contrappone risolutamente ad ogni retorica della comunicazione (non solo) narrativa e che si alimenta di un unico e autentico insegnamento: “L’autore cerca di pensare il meno possibile, specie quando scrive” (p. 541). È questo metodo che gli ha consentito, da un lato, di mettersi spontaneamente sulle tracce di Beckett e di Bernhard, i grandi che ha scelto come numi tutelari, dall’altro, di abbattere i terribili luoghi comuni con cui una certa intellighènzia ha cercato, e cerca tuttora, di spiegare l’Italia contemporanea senza mai avvicinarsi alla realtà. Il fatto è che Trevisan è, e vuole essere, sempre on the road, anche fisicamente; che non pretende, quindi, di guardare alle cose dall’alto (a meno che si tratti di osservarle dai tetti di qualche edificio industriale…); e che ha, così, assimilato la lezione che la verità si apprende solo nel mezzo, o dal di dentro, con tutti i disorientamenti e le crisi che questa esposizione può indurre.
Recensioni (di Gianluca Barbera; di Andrea Cortellessa; di Roberto Plevano; di Paolo Bonari; di Luca Illetterati; di Enzo Baranelli; di Cesare Galla)
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