Romanzo colto e raffinato, “costruito” con tecnica e con sapienza compositiva di stampo mitteleuropeo. Giorgio Manacorda – stimato germanista e valente poeta – si cimenta con la narrativa e regala ad un pubblico esigente un’opera prima di tutto rispetto.
Il protagonista, Giorgio, è un poliziotto che indaga su fatti drammatici e controversi di lotta armata e di scontri tra formazioni di estrema destra e formazioni di estrema sinistra. L’Italia è lo scenario naturale di questi conflitti, ma non si tratta del paese “storico”, bensì di un’Italia immaginaria, collocata in un tempo tutto artificiale, in cui, dopo le contestazioni studentesche della fine degli anni Sessanta e degli anni Settanta, una Giunta militare ha preso il potere. Inoltre, a fare da vero perno di tutta la vicenda, e così di tutta l’indagine poliziesca, non sono tanto gli Anni di piombo, quanto un viaggio nella memoria e nell’adolescenza: un viaggio che può chiarire le ragioni oscure di quegli Anni e che Giorgio sente di dover compiere, a Berlino, per ricostruire l’origine di alcuni fatti violenti e per capire Andrea, suo vecchio compagno di collegio in una scuola d’élite di quella grande città tedesca.
Andrea, precisamente, è coinvolto in questi fatti, e così lo è anche, se non soprattutto, Silvestro, suo fratello, che era stato nello stesso collegio e che, come Andrea e come Giorgio, ne aveva sperimentato la dura e inevitabile iniziazione, lungo il corridoio di legno (l’Holzgang) che separava le camerate degli allievi più giovani da quelle degli allievi più grandi. La “cellula” di amici e “compagni”, rivoluzionari in nuce, era nata lì, nell’ambiguità promiscua delle tradizioni e dei riti degli studenti.
Si attraversa, quindi, una successione di “tempi” diversi; per buona parte, Giorgio racconta le cose che scopre per mezzo della riproduzione di alcune lettere, scritte da Andrea ad un caro amico, un editore tedesco al quale era legato, e con il quale aveva lavorato, sempre a Berlino, dove era tornato per sfuggire alla spirale degli Anni di piombo. Andrea parla, in quelle lettere, del suo rientro in Italia, della sua ricerca di Silvestro, della ricostituzione che questi aveva fatto dell’antica “cellula”, ma con finalità del tutto diverse, anzi, del tutto opposte a quelle originarie. E in queste rievocazioni spuntano una strana figura di donna, amori e frequentazioni altrettanto oscuri e simbolici, tradimenti e sequestri, delitti e sopraffazioni. Così come emerge, quasi per contrasto, anche la solidità di un’esistenza tanto semplice e reale quanto apertamente tradita, che, fino alla fine, rappresenta, in una figura femminile, un’interlocuzione sicura. Riuscirà Giorgio a ritrovare Silvestro e a bloccarne la furia rivoluzionaria? Riuscirà soprattutto, a scoprirne le ragioni? Quali sono i segreti che sono rimasti impigliati nel corridoio di legno e che costituiscono l’unica e “vuota” giustificazione di tanta violenza?
Le domande esigono di trovare una risposta solo per mezzo della lettura, che non è sempre facile e che, in questa difficoltà, cerca talvolta una sorta di autocompiacimento, un effetto certamente studiato, per dare senso e densità alle allusioni filosofiche e psicanalitiche di cui si nutre tutto il romanzo. Ma una cosa si può dire subito: nel racconto, per l’appunto psicologico, e a volte anche un po’ “claustrofobico”, di Manacorda emerge un’ipotesi ricostruttiva anche sugli Anni di piombo e sui “vuoti” che comunque si nascondevano dietro la declamata forza rivoluzionaria delle passioni e delle ideologie. Il problema della costruzione artificiale di una vita e di un’identità, a partire da uno scollamento esistenziale “forte” e “primitivo”, ne rappresenta il nucleo centrale. È un tema, questo, che sicuramente merita ancora operazioni di memoria e di riflessione, e che nel libro, misurandosi con l’abisso, vuole palesarsi, come per assurdo, nella più estrema delle sue possibili esasperazioni.
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