È da molti anni che, a più riprese, si sollecitava la riedizione di questo libro. Ora, grazie alla curatela di Claudio Giunta e all’impegno concreto dell’Istituto Bruno Leoni, gli eleganti e puntuali saggi di Paolo Vita-Finzi sono nuovamente disponibili, con una prefazione di Francesco Perfetti. Erano comparsi quasi a puntate sulle pagine del Mondo, negli anni Cinquanta, per poi essere raccolti da Vallecchi nel 1961. Sono la più equilibrata e lucida rappresentazione, a tratti anche ironica, di come alcuni illustri intellettuali, scienziati della politica, giornalisti, artisti e sindacalisti operanti all’inizio del Novecento, fra la Francia e l’Italia, possano essere ascritti al novero degli inconsapevoli precursori del fascismo. E ciò pur partendo da posizioni, a seconda dei casi, socialiste, dichiaratamente riformiste, “democratiche” o addirittura liberali. La galleria è ricca e comprende sia volti e voci sulle cui ambiguità – ed evoluzioni spericolate – si è detto e scritto a lungo, sia figure dimenticate o, all’opposto, tanto note quanto apparentemente insospettabili.
In questa traiettoria i ritratti di Péguy, Sorel, Halévy, Faguet e de Jouvenel non sorprendono. Sono tutti campioni dell’antiparlamentarismo francese della Belle Époque e di un certo sentimento di critica della classe politica borghese, spesso accompagnato da fascinazioni superomistiche. Vita-Finzi ne colloca l’humus all’interno della fucina ribollente delle tensioni nate con l’affaire Dreyfus, e questa è forse l’intuizione più interessante di questa prima parte del volume. Poi si passa a una panoramica tutta italiana, nella quale il pezzo su Prezzolini è forse scontato, mentre è impressionante quello su Soffici e sul suo Lemmonio Boreo, eroe narrativo toscano, capace di prefigurare in tutto e per tutto, già nel 1912, il profilo prossimo venturo dello squadrista. I tre capitoli su Pareto e Mosca, poi, sono efficacissimi: studiosi così eguali, così diversi e reciprocamente polemici, eppure entrambi determinatissimi a smitizzare il senso delle idealità rappresentative quali forze motrici della politica e a far emergere, piuttosto, il peso decisivo delle élites, di qualsiasi segno esse siano. Sono, però, i tre interventi su Benedetto Croce a costituire il cuore del libro. Del grande pensatore Vita-Finzi ricostruisce le iniziali posizioni anti-illuministiche e una certa inclinazione autoritaria, ma anche i successivi cambi di fronte e i tentativi finali di razionalizzazione. È una parabola in qualche modo esemplare, figura di un intero ceto colto e di un approccio generale alla società e alla politica. Dei saggi finali, quelli su D’Annunzio e Marinetti incrociano, pur con tono divertito, e godibilissimo, letture assai note, mentre risultano ancor oggi originali e ficcanti le riflessioni su Salandra, Corridoni, Lanzillo e, last but not least, sullo scetticismo filosofico di Giuseppe Rensi (che pure, in gioventù, da socialista, aveva scritto l’ottimo La democrazia diretta, peraltro sintonizzato assai bene, nella sostanza, con la lezione di Mosca: v. qui la recensione).
Le delusioni della libertà è una piccola perla. Innanzitutto per la pacata, sottile distanza con cui il suo Autore si esercita a ripercorrere parole e idee, sovente anche contraddittorie, dei protagonisti di cui scrive. È una bella scrittura, che a tratti si fa anche esercizio di rondismo un po’ retro, e tuttavia senza pedanteria alcuna. Vi si intravede, anzi, la consapevolezza e la resilienza del diplomatico di lungo corso, che ha vissuto da vicino la degenerazione delle istituzioni liberal-democratiche e le discriminazioni delle leggi razziali, e che proprio per questo cerca di capire, tornando (per così dire) sul luogo del delitto e ripercorrendo testi e discorsi che, al tempo in cui furono concepiti, non avevano avvertito ciò che sarebbe potuto succedere. Quella di Vita-Finzi merita di essere annoverata, soprattutto, come autentica prospettiva liberale. Con ciò non si allude all’adesione a una qualche corrente di liberalismo storico. È uno status mentale: l’atteggiamento di chi ci vuole ammonire sui limiti e sugli scivolamenti di ogni presunzione, come sulla discreta concretezza che si nasconde dietro le più semplici, e faticose, dinamiche della rappresentanza politica. Va detto, infine, che Le delusioni della libertà è un testo che andrebbe letto da ogni giurista pubblicista, magari a complemento dello studio del recente e approfondito lavoro di José Esteve Pardo su Antiparlamentarismo e democrazia: dal quale si apprende anche che il diritto pubblico e la sua scienza, dopo la seconda guerra mondiale, hanno saputo far tesoro di quanto accaduto. A certificazione ulteriore del fatto che è la cultura che precede e sorregge le istituzioni.
Ps: frequentando le pagine di Vita-Finzi mi imbatto nel nome di Mario Missiroli. Il suo Una battaglia perduta, che risale al 1924, è un altro libro (tra i tanti) che richiederebbe, oggi, di essere ripubblicato in un’edizione degna e piacevole
Recensioni (di G. Faè; di M. Magno; di G. Mantovani)
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