Luca Rainer è un traduttore e vive da single nel centro di Trieste. La Vecchia Blu, storica direttrice della Fortezza, il carcere cittadino, gli chiede di confrontarsi con Carlo Malaguti, omicida reo confesso e prossimo alla liberazione per limiti d’età: al processo, vent’anni prima, era stato difeso dalla madre di Luca, intuitiva ma scostante avvocatessa; ora il figlio potrebbe anche ricavarne un racconto, da consegnare al suo editore. Malaguti, però, si ostina a nascondergli la verità, anche se tra i due si fa gradualmente strada un po’ di confidenza. Luca comincia a scavare nel passato e si spinge fino all’isola di Sant’Erasmo, nella laguna veneta, dove incontra un’eccentrica fattucchiera. È quello il luogo in cui tutto era cominciato; è lì che Carlo, per fuggire da un arruolamento forzato, aveva incontrato un grande e indimenticabile amore; ed è lì che la guerra aveva infranto tutti i suoi sogni. Ma Luca ancora non capisce: perché mai Carlo ha ucciso Marta Vianello, un’anonima dattilografa di Mestre? Neppure l’occasione di un viaggio in barca, in Adriatico, riesce a dischiudergli la strada per capire a fondo il segreto dell’ex ergastolano. All’improvviso, poi, questi muore, suicida, nella sua vecchia casa, lasciando al nuovo amico, solo allora, una lunga confessione scritta, il resoconto drammatico di una vicenda di passione e paura, di tradimento e vendetta, di una colpa mai del tutto espiata. Il cerchio si chiude, quindi; e per Luca non si tratta più di scrivere un libro di successo, poiché l’estrema solitudine di Carlo lo ha fatto riflettere sull’insensatezza della sua e sul valore dell’amicizia.
Di Molesini, questa, è l’opera seconda. Lo è per ragioni cronologiche, innanzitutto, perché viene dopo l’originale e fortunato debutto di Non tutti i bastardi sono di Vienna. Lo è, tuttavia, anche perché non è al livello della precedente: viene dopo anche sul piano del giudizio di valore. C’è qualcosa, in questo romanzo, che non gira. Le pagine si susseguono e si è indotti ad attendere un’accelerazione, un cambio di passo che non si avverte neanche quando Carlo Malaguti racconta la sua storia in prima persona, nella lunga lettera che lascia a Luca Rainer: questa, semplicemente, sviluppa, o svela, tutto ciò che si intravede già nella prima metà del libro, e che, a voler essere sinceri, di suo non sarebbe per niente male. L’Autore, infatti, cerca di rappresentare qualcosa che, in effetti, non sopporta i colpi di scena o le articolazioni troppo complesse. L’obiettivo è intimo, riguarda un’istanza di giustizia personale e incommensurabile, che supera per definizione qualsiasi variazione di trama e di contesto, e che quindi non vi si può adattare naturalmente, in forza della sua assolutezza. Ma allora non si comprende come mai Molesini abbia voluto dire troppo, esplicitare così tanto un mood che, viceversa, nel suo rimanere rispettosamente implicito, avrebbe potuto manifestare al meglio la sua efficacia sul piano narrativo. Forse che l’Autore – di cui chiaramente la figura di Luca Rainer è la proiezione più desiderata… – si è lasciato prendere da una sua propria, e umanissima, emergenza? Detto questo, una buona notizia c’è: Molesini si aggiunge a quegli scrittori (come Giorgio Fontana, ad esempio, o come la Simona Vinci de La prima verità: tutti vincitori recenti del Campiello…), che sono interessati, senza vergognarsene, a riconoscere una dichiarata priorità alla psicologia delle relazioni e degli affetti, delle scelte e delle parabole irresistibilmente individuali, e ciò anche quando grandi questioni o snodi cruciali della Storia sembrerebbero dover prendere sempre il sopravvento e spiegare ogni cosa. È un filone più che meritevole, che forse, mutatis mutandis, attualizza la lezione di Romano Bilenchi (tutta da riscoprire…) e che anche oggi, in questo modo, potrebbe avere qualche degno erede.
Recensione (di Bruno Quaranta)
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