Nel 2467 Robert Spofforth, il robot più evoluto tra quelli finora costruiti, si aggira per New York. Vorrebbe suicidarsi, ma la sua programmazione non lo consente. È tormentato da alcuni sogni, che gli ricordano la vita passata dell’intelligenza umana che gli è stata impiantata all’inizio della sua attivazione. Forse l’entrata in scena di Paul Bentley, che è uno dei pochi uomini a saper leggere, può aiutarlo: Spofforth, che è anche il decano dell’Università di New York, lo incarica di registrare i dialoghi di antichi film muti, nella speranza di poter afferrare qualcosa che gli consenta di capire i presupposti della memoria che gli è stata installata. Ma il destino di Bentley sembra diverso: infatti, pur svolgendo diligentemente i compiti affidatigli da Spofforth, comincia a provare una sorta di inspiegabile disagio esistenziale e riporta per iscritto tutte le sue sensazioni, per memorizzare la propria vita. Inoltre si innamora di Mary Lou, una donna che vive nello zoo della città e che, diversamente da tutti gli altri, non prende farmaci e sembra del tutto indifferente ai grandi principi dell’era presente, ossia alla Privacy e all’Individualismo. Bentley le insegna a leggere. Spofforth, però, li scopre, denuncia Bentley – che viene incarcerato – e porta a vivere con sé Mary Lou, nel frattempo rimasta incinta. In prigione, tuttavia, Bentley, che come tutti (tranne Mary Lou) è stato allevato nei misteriosi Dormitori, diventa maturo, continua a leggere e a scrivere, e capisce che il mondo degli uomini si è improvvisamente e inspiegabilmente votato all’estinzione. Intraprende in questo modo un lento, ma inarrestabile, processo di apprendimento, alla ricerca della sua umanità perduta. Riesce così ad evadere e, dopo un lungo itinerario nella natura più selvaggia, si imbatte in una strana comunità religiosa, che vive attorno ai resti di una vecchia città-rifugio, cimelio di antiche guerre globali. Qui prova nuovamente l’amore, diventa autosufficiente e riparte alla ricerca di Mary Lou, a bordo di un autobus a pensiero particolarmente sensibile. Troverà la sua donna, e sua figlia, in una New York ormai annichilita. Lì scoprirà la verità su Spofforth, sulla sua incrollabile determinazione e sulla storia dell’umanità, diventando, forse, il primo uomo di un possibile nuovo mondo.

In lingua originale il titolo di questo grande romanzo è Mockingbird, vale a dire “mimo”, l’uccello (il tordo americano) cui allude anche il titolo di questa più recente edizione, la quale, a sua volta, riprende integralmente il verso di una poesia in cui quella parola compare: è il verso, cioè, che sempre risuona nella mente di Paul Bentley e che lo scuote nel profondo senza che egli riesca a comprenderne le ragioni. Al solo pensiero che al suo primo debutto italiano, nel 1983, il libro di Tevis avesse come titolo un banale Futuro in trance, viene da chiedersi che cosa si fosse capito, allora, di questo meraviglioso racconto distopico. Perché è proprio lo struggimento indotto dal linguaggio apparentemente non significativo dell’arte (della poesia come del cinema) a comunicare a Bentley la possibilità di un’esistenza molto diversa da quella cui il mondo è andato incontro. Da quest’ultimo punto di vista, il dato veramente stupefacente è che nel futuro di Tevis gli uomini non rischiano di estinguersi a causa della guerra o della distruzione del pianeta e delle sue risorse. L’uomo, dopo la Morte del Petrolio, ha imboccato una strada ancor peggiore, quella di una rinuncia, scientifica, a qualsiasi emotività spontanea, nella coltivazione (tecnicamente assistita) di un egoismo controllato e autosufficiente, elevato, paradossalmente, a cardine di qualsiasi forma di ordinata e civile convivenza. La società, in altri termini, si è assuefatta e narcotizzata, e si ritrova, per di più, governata dai robot in attesa di un esaurimento finale. Nel romanzo, però, c’è anche dell’altro: la vicenda di Spofforth non è solo l’emblema dell’irrinunciabilità (sulla terra), o dell’inafferrabilità (per il robot), di ciò che è tipico dell’uomo; essa è anche la proiezione della tragica fallibilità della tecnologia, sia pur di quella più evoluta e performante, che nonostante ciò è pur sempre fatta di ingranaggi suscettibili di incepparsi all’improvviso e incapaci, se lasciati soli, di vera immaginazione. Le rivelazioni del finale, sul punto, sono tanto drammatiche quanto illuminanti; e può essere anche interessante annotare che lo sguardo critico viene da un Autore costantemente immerso nelle esperienze più disincantate e fallimentari della società secolarizzata, eppure istintivamente e profondamente attratto da un afflato di matrice certamente religiosa. Occorre dire ad ogni modo, che quelli di Tevis sono sempre capolavori e che dai tempi de L’uomo che cadde sulla terra non possiamo più evitare di chiederci chi o che cosa vogliamo continuare ad essere.

Recensioni (di Sandro Pergameno; di Gian Paolo Serino)

La Prefazione (di Goffredo Fofi)

Un profilo biografico di Walter Tevis

Un bel pezzo sulle opere di Tevis

Una classifica personale:

  1. L’uomo che cadde sulla terra
  2. Solo il mimo canta al limitare del bosco
  3. Lo spaccone
  4. La regina degli scacchi
  5. Il colore dei soldi
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