
Unico romanzo di un insigne poeta e critico statunitense, I nostri padri (The Fathers, 1938) appartiene senza ombra di dubbio ai capolavori della letteratura nordamericana. In italiano lo si trova ancora su qualche bancarella dell’usato, oppure in vendita online, nell’unica edizione Feltrinelli del 1964. In lingua originale lo si può leggere facilmente in rete, nell’edizione del 1960. L’azione si dipana nell’arco di pochi mesi, tra il 1860 e il 1861, lungo quello che diviene presto il primo fronte caldissimo della guerra civile. La voce narrante è quella di Lacy, il figlio più giovane del Maggiore Buchan, proprietario della tenuta di Colle Ameno, in Virginia. Divenuto anziano, Lacy ricorda quel drammatico lasso di tempo, in cui tante cose sono brutalmente cambiate, per sé e la sua famiglia, come per il popolo americano. Si tratta di un racconto in tre parti (Colle Ameno; L’ora cruciale; L’abisso), quasi fossero atti di una rappresentazione tragica. La prima scena si svolge nella casa avita di campagna, nel giorno delle esequie della madre di Lacy, allora adolescente. Vi si intravede subito il senso della narrazione, che si gioca nel conflitto tra ciò che incarna il Maggiore Buchan, la Tradizione, e ciò che, viceversa, anima George Posey, campione dell’Affarismo più risoluto e promesso sposo, e poi marito, di Susan Buchan. La seconda scena si anima nel passaggio di Lacy dalla dimora cittadina della famiglia Buchan, ad Alexandria, alla casa dei Posey, a Georgetown. La frattura tra mondi e valori, e stili di vita, distinti attraversa ormai anche la famiglia Buchan. Semmes, fratello di Lacy, si arruola tra i Confederati, nonostante il contrario avviso del padre, attestato invece su posizioni moderate; George – che in virtù di un contegno apparentemente forte gioca su Lacy un certo ascendente – tiene un comportamento ambiguo e sembra promuovere iniziative spregiudicate e pericolose con entrambe le parti; Lacy si trasferisce da Susan, a casa Posey. La terza scena, infine, si accende sempre a Georgetown, proprio nella residenza dei Posey, e termina nuovamente in Virginia, ai margini di quelli che sono i campi di battaglia di Bull Run. Ora i nodi vengono al pettine, in un clima sempre più spettrale e imperscrutabile, di decadimento, smarrimento e lutto. Ecco, dunque, in rapida sequenza, la morte della madre di George, di Semmes e di Jim il Giallo, un uomo di colore che aveva già servito i Posey e che è accusato di aver insidiato la giovane Jane, la sorella più piccola di George. E della quale sia Semmes, sia Lacy sono vanamente innamorati. Il conflitto, intanto, piomba sui protagonisti con tutta la sua ineluttabile violenza, e il Maggiore – che sente l’imminente scomparsa del suo irrinunciabile cosmo – si suicida, mentre Lacy diventa adulto, improvvisamente e duramente.
Dove sta l’importanza di questo libro? La questione, potenzialmente, è intricatissima, perché molto tecnica. Come esponente di spicco del New Criticism, l’Autore ha professato ripetutamente una fede incrollabile e ostinata nella forma, nel linguaggio letterario in sé e per sé considerato: basta leggere, in proposito, i suoi Saggi o il pezzo di commento alla celebre Ode to the Confederate Dead. Per fargli veramente onore, pertanto. occorrerebbe sottoporre questo romanzo a un’analisi minuziosa e profonda. Si potrebbe partire, ad esempio, dal Tate del manifesto l’ll take my stand del 1930, voce teorizzante degli Agrarians e, dunque, impegnato nel contrapporre la civiltà rurale del Sud al modello sociale ormai prevalente del progresso industriale e consumistico. Perché se è vero che proprio negli anni Trenta lo scrittore è ancora vicino a posizioni pericolosamente “razziste” o “suprematiste”, è altrettanto vero che – come si comprende benissimo e già in The Fathers– il suo cruccio è l’opposizione tra visioni della vita e della società eccessivamente polarizzate, e così la questione delle scelte individuali: sempre sofferte, sempre tormentate, sempre decisive. È per questo che l’uomo ha bisogno di una “religione”. Una delle differenze più marcate, rispetto a William Faulkner (il confronto sorge quasi spontaneo), sta proprio qui: c’è una sorta di esistenzialismo, in Tate, ed anche assai marcato. Si potrebbe annotare, da quest’ultimo punto di vista, la grande sofisticazione che nel romanzo di Tate dimostra l’approfondimento dell’intreccio tra storia familiare e storia collettiva: maggiore qui che nel più famoso, e notissimo, Via col vento di Margaret Mitchell (che è del 1936). Pure perché la qualità della messa in scena è effettivamente superiore, specie grazie all’evidente influenza di Poe, quale si sente non solo in alcuni specifici passaggi, ma soprattutto per la ripresa quasi esplicita, e originale, del tema e dello scenario della Caduta della casa degli Usher (1839). Verrebbe da precisare che il libro è un’autentica enciclopedia di rimandi e riferimenti criptici, dai quali (almeno a giudizio di chi scrive) non sono esclusi Hawthorne, Twain, Shakespeare… e molti altri. Al lettore italiano, poi, potrebbe venire in mente qualche suggestivo (ma certo non cercato) parallelo tra la finale fuga di Lacy verso casa e l’avventurosa corsa manzoniana di Renzo Tramaglino verso l’Adda. Non c’è dubbio che I nostri padri è una lettura difficile, che richiede pazienza e fiducia. Eppure, al contempo, è opera che, pagina dopo pagina, si rivela efficace, chiara e potente. Ci vorrebbe una traduzione aggiornata e più vicina alla sensibilità odierna, poiché è un peccato che un testo così interessante non venga riscoperto e apprezzato dal grande pubblico.
Recensione (di E. Rialti)
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