Quando Paolo Nori scrive di Russia, scrive di scrittori russi: dei suoi russi. E così facendo – forse è un paradosso, forse no: credo che non lo sia – riesce a renderli ancor più classici di quanto già lo sono nell’opinione comune. Questa volta si concentra su Dostoevskij. Infatti, pur a distanza dalla prima lettura, “sanguina ancora”. Dunque ancora si ricorda, lo scrittore emiliano, di quando ha scoperto Delitto e castigo e di ciò che un romanzo come quello può trasmettere. Come è vero per tanti altri libri di Dostoevskij. Questo volume ne racconta vita e opere, con l’inconfondibile stile di montaggio di cui Nori è capace. È il suo consueto andamento a scatti, tra ricordi personali e familiari, citazioni e aneddoti, osservazioni divertite. Ma è proprio così che emergono molti profili interessanti, di Dostoevskij come della grande letteratura russa. Nori, ad esempio, racconta l’importanza di Puškin in modo assai fresco; ridimensiona un po’ Gogol’ (forse per dispetto a Nabokov) e Turgenev (che forse è meno russo di quanto avrebbe potuto essere); offre qualche sguardo sulla modernità delle interpretazioni critiche fornite da Bachtin e da Sklovskij; e cerca di conciliare Dostoevskij e Tolstoj, anche perché non c’è nulla di male ad amare l’uno e l’altro. Il cuore del libro, però, rimane l’uomo Dostoevskij: con le sue ambizioni, le sue contraddizioni, le due mogli, la condanna a morte e la detenzione, il legame con il devoto fratello, il noto e irredimibile vizio per il gioco, i ripetuti successi e gli altrettanti fallimenti, le piccole grandi curiosità riferite dai molti biografi. Il punto è che si può amare un autore e riconoscerne l’imperituro valore anche se la sua esistenza non è stata così lineare o irreprensibile. È una consapevolezza che purtroppo, di questi tempi, viene messa in dubbio sempre più spesso. Nori, poi, riesce a rievocare bene i romanzi più noti, sottolineando con efficacia la cifra plurale, polifonica, delle storie narrate da Dostoevskij, che è stato un vero maestro della caratterizzazione profonda di tutti i suoi personaggi. Come se fosse in grado di abitarne il carattere, di assumerne e ricostruirne contemporaneamente, e credibilmente, l’autentico punto di vista. Sanguina ancora, in chiusura, non commette l’errore (troppo frequente) di naufragare nei Fratelli Karamazov e nel Grande Inquisitore. Probabilmente ciò è dovuto a quanto lo stesso Nori ripete più volte, ossia che era in ritardo con la stesura del saggio. Tuttavia, voluta o non voluta, la scelta è provvidenziale, visto che in questo modo il libro rimane digeribile, come dev’essere per ogni sincero e pulito invito a gustarsi senza mediazioni il respiro della migliore letteratura.

Recensioni (di M. Ciriello; di D. D’Alessandro; di D. Gabutti; di D. Ronzoni)

Alcuni dei più grandi romanzi di Dostoevskij… in forma di audiolibri (letti da V. Zanardi)

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“La civiltà contemporanea ripone tutta la fiducia nelle soluzioni pratiche e mette, anche senza dichiararlo, fra parentesi tutto quello che minaccia il proprio ottimismo. Eppure tutto l’orrore non è solo un difetto di funzionamento, ma il rovescio di quello che la civiltà odierna ammira con tanto entusiasmo” (p. 56).

Questo è, in estrema sintesi, il messaggio che Földényi vuole veicolare in questo piccolo esperimento pedagogico. Lo definisco così, poiché non è un saggio su Hegel in Dostoevskij; poiché è un lavoro che intende dimostrare e trasmettere qualcosa; e poiché muove, con una finalità ben precisa, da un intreccio argomentato di storia e di finzione, dall’immagine, cioè, quasi teatrale di Dostoevskij condannato in Siberia (fatto reale) e sorpreso a piangere durante la lettura di alcuni passaggi delle Lezioni sulla filosofia della storia di Hegel (fatto immaginato). Una simile rappresentazione consente all’Autore ungherese di dipingere in modo pressoché indimenticabile un’idea molto forte, a sintesi delle evoluzioni più profonde del pensiero occidentale. Come se ci trovassimo di fronte ad un’icona.

Che cosa fa piangere Dostoevskij? L’affermazione di Hegel sulla Siberia, considerata “fuori dalla storia”, alla stessa stregua dell’Africa, misteriosa e incomprensibile. Eppure, il sentirsi completamente trascurato dalla visione razionalistica propugnata dal filosofo tedesco e dalle sue sperimentazioni viventi e progressive, è l’occasione, per il grande scrittore russo, di un momento di intima comprensione. Ci sono luoghi, cioè, in cui neppure la ragione può giungere e rispetto ai quali solo il miracolo può avere un valore salvifico. Anzi, questi luoghi meritano tanto più attenzione, per ascoltare ciò che la ragione non può mai travolgere, ossia per difendere uno spazio autentico di libertà: “Non si può parlare di libertà se infinito e trascendenza si perdono dietro cose limitate. Il dio assoggettato alla razionalità non è il dio della libertà ma della politica, della conquista e della colonizzazione” (p. 31).

Le pagine oscure dell’Occidente si spiegherebbero, dunque, alla luce del processo di secolarizzazione, che eleva la ragione e le sue manifestazioni, anche istituzionali, a misura onnicomprensiva, potenzialmente onnivora e violenta. La tesi di Földényi non è nuova; ma il metodo della sua illustrazione è davvero incisivo, e assicura, ben al di là del brevissimo tempo che occorre alla lettura, intermezzi notevoli di suggestione, riflessione e approfondimento.

Un altro breve pezzo di Lázló F. Földényi (Congedo dalla cultura)

Una conversazione (in tedesco) con Lázló F. Földényi

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