Dieter Müller è un ex professore universitario di filosofia della storia. È il 1948 e si trova in Argentina. È riparato lì nel 1944, dopo aver insegnato per anni a Friburgo, l’Università di Martin Heidegger, suo Maestro. È stato il grande pensatore, l’autore di Essere e tempo, a folgorarlo e condurlo sulla via degli studi filosofici. Ma allo stesso tempo Heidegger – che nel 1933, sia pure per un solo anno, era diventato rettore abbracciando esplicitamente l’ideologia del nuovo regime e in particolare della sua fronda più estrema – ha posto Dieter anche sulla via del nazionalsocialismo. Anzi, Dieter ne è certo: i presupposti teoretici della nuova ideologia risuonavano pienamente già nell’opera del Maestro. E di ciò lo stesso Dieter scrive al figlio in una lunga lettera, che compone la prima parte di questo originale romanzo, e che è destinata ad essere letta postuma. Al termine di essa, il suo autore si toglierà la vita, sparandosi un colpo di pistola e utilizzando a tale scopo la vecchia Luger che suo padre aveva utilizzato sul fronte del primo conflitto mondiale. Dieter, infatti, venuto a contatto con un gruppo di irriducibili nazisti in fuga, si accorge all’improvviso degli orrori indicibili dell’Olocausto, di cui avrebbe dovuto sapere da tempo, e dei quali dunque si sente inevitabilmente corresponsabile. Nella seconda parte del libro, il figlio di Dieter – Martin… come il tanto ammirato mentore del padre – narra del suo incontro con Heidegger, vent’anni più tardi, e rievoca il silenzio e l’estraneità del filosofo di fronte al suo racconto, in cui, oltre a riportare la tragica fine di Dieter, offre una drammatica raffigurazione delle tormentate vicende argentine del peronismo e dei golpe militari, e sfida Heidegger alla presa d’atto dell’insostenibile abissalità politica della sua posizione intellettuale.
In questo libro Feinmann, scrittore argentino famoso e assai particolare, scomparso di recente, affronta il noto caso Heidegger. Che periodicamente torna a galla, come è effettivamente accaduto anche in Italia, più volte, e pure qualche anno fa, con la pubblicazione di uno studio molto rilevante. Franco Volpi e Antonio Gnoli lo sottolineano nella Postfazione (di cui si può leggere un estratto online): Feinmann mette il dito nella piaga, invitandoci a rispondere a una questione complessa. Come accettare che un pilastro della filosofia del Novecento sia stato così tanto, e ostinatamente, contiguo a una delle pagine più nere di quel Secolo e della Storia tutta? Ma si potrebbe dire anche di più: può essere davvero considerato un pilastro un filosofo tanto contiguo? Sono domande forti anche per i giuristi, che spesso si sono misurati, e continuano a misurarsi, e a scontrarsi, con il caso Schmitt. Va o non va letto e studiato tuttora questo penetrante e terribile giurista tedesco? Si può apprezzare la profondità di un’esperienza scientifica pur condannando senza appello il cinismo, l’opportunismo e la convinta indifferenza di una traiettoria umana e professionale? L’ombra di Heidegger non offre risposte. Da un certo punto di vista fa qualcosa di meglio, perché suscita la sensazione viscerale che non sia possibile non formulare degli interrogativi e che il solo fatto di porseli possa avere un valore esistenziale e deontologico irrinunciabile, per ogni individuo come per ogni studioso.
Recensioni (di M. Caneschi; da 2000battute)
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